Quando le luci si spengono e la passerella si illumina a Parigi, c’è un momento sospeso in cui tutto può accadere. Ero lì, in prima fila da Givenchy, con il taccuino già aperto e quella sensazione che si prova solo quando si sa di assistere a qualcosa di importante. Sarah Burton presentava la sua seconda collezione per la Maison e l’aria era carica di aspettativa. Poi è iniziato tutto: un susseguirsi di silhouette che respiravano, di tessuti che sembravano voler raccontare una storia intima, personale, quasi sussurrata.

L’essenza della femminilità contemporanea

Burton ha costruito questa collezione attorno a un’idea precisa: esprimere una femminilità potente senza ricorrere ai codici maschili tradizionali come giacche strutturate e spalle pronunciate. E ci è riuscita con una maestria che mi ha lasciata senza fiato. Ho visto camicie bianche reinventate con colletti allungati che si protendevano in avanti, creando prospettive inedite sul corpo, rivelando décolleté e gioielli preziosi. Una gonna midi in tessuto leggero da sartoria, tagliata con precisione chirurgica, diventava incredibilmente seducente. Mariacarla Boscono l’ha indossata con quella nonchalance che solo le grandi modelle possiedono, trasformando un capo apparentemente semplice in pura poesia visiva.

Tra struttura e disfacimento

La designer ha spiegato che il punto di partenza era “sbucciare via la struttura della sartoria per rivelare la pelle e un senso di leggerezza”. E questa promessa si è materializzata davanti ai miei occhi in modi sorprendenti. Gli abiti in maglia mesh con orli a coda di pesce della collezione autunnale sono stati reinterpretati come colonne strette con grandi volant intorno al seno, realizzati in tulle supersized chiamato “Paris net”. C’era qualcosa di teatrale ma mai eccessivo, un equilibrio perfetto tra architettura e morbidezza.

Burton ha ripreso alcune silhouette dalla sua collezione di debutto, addolcendo la sartoria a clessidra e lasciandola quasi scivolare dalle spalle. Mi sono ritrovata a pensare a quanto sia difficile creare qualcosa di nuovo pur mantenendo una coerenza narrativa, eppure lei lo ha fatto con apparente facilità. Le giacche si aprivano, le gonne si fendevano, i corpetti si rivelavano: era come assistere a una danza del vestire e dello svestire, un gioco sottile e intelligente.

La seduzione della leggerezza

Gli abitini corti in pesante raso avevano un’atmosfera da boudoir discreto, uno con uno strascico Watteau. Li ho visti passare davanti a me e ho pensato a quanto sia raro oggi vedere una sensualità così raffinata e mai volgare. Burton ha tagliato un chiodo in pelle nera nello stile di una giacca da camera, che sembrava abbracciare l’abito babydoll in pizzo bianco sottostante. Era un contrasto meraviglioso: il rigore della pelle contro la dolcezza del pizzo, la forza contro la vulnerabilità.

Un abito midi in seta rosa pallido con una stola-mantella sulla schiena creava un momento alla Audrey Hepburn per Hubert de Givenchy. Quel riferimento alla storia della Maison non era nostalgico ma piuttosto un ponte tra passato e presente, un modo per dire che l’eleganza non passa mai di moda, si trasforma.

Trasparenze e architetture del corpo

Il look finale su Kaia Gerber era un reggiseno e una gonna stretta e svolazzante, entrambi in un ricamo floreale che sfumava delicatamente nel rosa. Quando l’ho vista chiudere la sfilata, ho capito che Burton stava celebrando il corpo femminile in tutta la sua complessità. Un abito trasparente senza spalline in rete color ciliegia aveva un voluminoso volant a balze alla scollatura, creando un effetto quasi scultoreo.

Un abito in tulle bianco con reggiseno a conchiglia, un motivo ricorrente nella collezione, emanava un fascino angelico. C’era una purezza quasi eterea in questi pezzi, eppure mai ingenua. Ogni trasparenza era studiata, ogni rivelazione era intenzionale. Un trench assumeva le curve del corpo femminile, dimostrando che anche i capi più tradizionali possono essere ripensati in chiave contemporanea.

Il lusso della semplicità

Durante l’anteprima nel suo studio parigino, Burton aveva confidato: “Il mondo è così rumoroso. Mi piace l’idea che sia ancora molto essenziale, così c’è chiarezza nel modo in cui la donna si veste. Non la sopraffà”. E questa filosofia era palpabile in ogni look. Non c’era nulla di superfluo, nulla di gridato. Ogni reggiseno visibile, ogni spacco, ogni scollatura parlava di una donna che conosce il proprio potere e non ha bisogno di urlarlo.

I pezzi in pelle – dalle gonne sartoriali nello stesso pattern delle versioni in lana a una giacca moto a forma di cuore con cerniere a vista sul colletto esagerato – erano tra i momenti più forti. La pelle, materiale tradizionalmente associato alla ribellione, veniva qui ammorbidita, femminilizzata, trasformata in qualcosa di nuovo.

La donna Givenchy oggi

La testimonianza della maestria di Burton, e della dignità che abita i suoi abiti, era che vedevi sempre prima la donna, non importa quanto ridotto fosse il suo reggiseno o quanto alta la fenditura del suo abito senza spalline. Questo era il vero trionfo della collezione: non la spettacolarità fine a se stessa, ma la celebrazione della persona che indossa il capo.

Burton ha detto durante l’anteprima: “Le donne vogliono sentirsi sexy. Penso che vogliano abbracciare i loro corpi. Vogliono sentirsi straordinarie ed è una cosa potente”. E mentre scrivevo queste parole sul mio taccuino, mentre le modelle si succedevano sulla passerella, ho pensato che forse questo è esattamente ciò di cui abbiamo bisogno in questo momento: abiti che ci fanno sentire potenti proprio perché ci permettono di essere noi stesse, senza armature, senza maschere.

Uscendo dalla sfilata, con la testa ancora piena di quelle immagini, mi sono resa conto che Sarah Burton non sta solo disegnando vestiti per Givenchy. Sta scrivendo un nuovo capitolo su cosa significa essere una donna contemporanea: forte e vulnerabile, strutturata e fluida, coperta e rivelata. E questa, posso dirlo con certezza, è moda che conta davvero.