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#Wajib: una piccola perla palestinese

#Wajib: una piccola perla palestinese

Il film di Annemarie Jacir, Wajib, candidato agli scorsi Oscar come miglior film straniero e distribuito da Satine Film, sarà in sala dal 19 aprile.

Wajib, o “dovere sociale” è un termine arabo che suona tanto come un universale, un assioma indefinito fatto di regole non scritte, usanze, obblighi e favori, troppo complesso da mettere a fuoco nella sua totalità. Non senza ragioni dunque Annemarie Jacir ha orientato la lente del suo binocolo su una particolare usanza palestinese ascrivibile sotto il termine Wajib. Chiamatela, all’italiana se volete, lettera di partecipazione.

Ancora in voga nel sud Italia, la lettera di partecipazione per un matrimonio, in Palestina, è più di un comune invito. Parliamo piuttosto di un momento sociale di consolidazione, di fratellanza e di ascrizione di una famiglia nel complesso sistema di amicizie di una seconda, nello specifico, la famiglia che propone il matrimonio alla comunità. Eppure non è sufficiente l’efficienza di una mail, neanche la velocità pratica del fax. In Palestina Wajib vuol dire anche girare per l’intera città e consegnare porta per porta, caffé per caffé e storia per storia, la lettera di partecipazione contenente un cartoncino decorato.

Il Wajib, nel caso del matrimonio di una donna della famiglia, va portato a termine come puro dovere dal fratello e dal padre della sposa.

Nella pellicola della signora Jacir tuttavia, Wajib è solo un contesto per parlare d’altro. Toccare temi scottanti tenuti nell’ombra , taciuti da giornali, media e opinione pubblica.

Wajib per Shadi ha traduzioni decisamente più complesse del dovere sociale. Si tradurrà in: lasciare l’Italia per raggiungere il padre e sua sorella, accompagnare il genitore con l’auto in ogni casa per la consegna, infine venire allo scontro con questo quando scoprirà chi è stato inserito nella lista, ossia una spia ebrea, motivo stesso della fuga di Shadi in Italia.

Complesso e coraggioso il discorso di Annemarie Jacir che, ponendo l’accento su ciò che vuol dire essere un palestinese oggi nello stato d’Israele, racconta storie sommerse e sconosciute di giovani costretti alla fuga, ostracizzati, costretti a chiudere banalissimi cineforum poiché accusati di cospirazione. Il palestinese deve chiedere permesso per qualsiasi cosa, subisce controlli con tempestiva regolarità invasiva. Infine, per mantenere la propria posizione lavorativa, è costretto al compromesso. Wajib allora sarà più che la consegna di un centinaio di lettere. Sarà scontro generazionale tra i giovani che non accettano la repressione dei palestinesi e i più vecchi che ormai hanno imparato a convivere con essa in virtù della pace e dell’amore, anche a costo di mettere da parte sé stessi più e più volte.

Perlopiù girato in una piccola auto, interpretato realmente da padre e figlio, Mohammad e Saleh Bakri, entrambi attori di professione per la prima volta sul set assieme, Wajib sconvolge per la semplicità, per assenza d’artificio. Una tangibile prova del fatto che, quando il cinema tende alla vita pura, seppure non toccandola mai davvero, non serve il trucco né l’inganno, non c’è bisogno di nulla se non di storie umane vissute, fatte di sudore, saliva e lacrime. Regia minimale, fotografia calda e piena, riempita con le traboccanti presenze di padre e figlio, vittime prigioniere del proprio tempo in un inverno troppo accaldato sotto ogni aspetto.

Una spettacolare prova casereccia e quasi amatoriale proposta da un’autrice palestinese conscia dei propri limiti e meno delle proprie capacità. Un piccolo gioiellino di cui andar fieri, già solo per averlo trascinato in Italia. Wajib, per noi spettatori, è il dovere all’apertura, soprattutto, al ridimensionamento del pensiero unico dell’opinione pubblica.

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