Inutile stilare la quantità di premi vinti dal regista iraniano, così come inutile è ribadire le sue doti di sceneggiatore prima e regista poi. Dal 5 gennaio ci si fida di Asghar Farhadi e si va a vedere Il cliente.
Emad e Rana, coniugi e attori di una compagnia teatrale che cerca di mettere in scena il più famoso testo di Miller, sono costretti a cercare una nuova sistemazione per via dell’instabilità del loro appartamento. Vengono aiutati da un collega e amico che li ospiterà in una nuova casa, in precedenza abitata da quella che viene descritta dai vicini come una prostituta. L’abitazione, nonostante il passaggio di proprietà continua ad attirare i vecchi clienti dell’ex inquilina fino ad uno spiacevole incidente.
Dopo “Il passato” e “Una separazione”, l’ultimo film del regista iraniano, presentato a Cannes e vincitore per la migliore sceneggiatura e il miglior attore, va a collocarsi sulla scia degli altri due drammi casalinghi.
Farhadi più che un artista è un artigiano. Un minuzioso falegname o scultore che lima e smussa le sue vicende attraverso una scrittura casareccia complessa, vicina al nucleo dell’azione, quest’ultima come sempre velata e mai disonesta nei confronti dello spettatore. Non ci sono furberie. La sceneggiatura di Il cliente, meno verbosa di quella dei due film precedenti, è una vera e propria perla narrativo-descrittiva. La regia è linda e silenziosa. L’obiettivo di Farhadi si muove tra stanze , scalinate e teatri tingendosi con un pigmento invisibile, semplicemente annullandosi.
C’è il dolore di Rana che nasce dall’aggressione subita mentre fa una doccia, c’è la rabbia di Emad che non sa bene come gestire la situazione e soprattutto le sue emozioni contrastanti, divorato dall’orgoglio e dal desiderio di vendetta. Bello vedere come in aula il giovane professore passi dalla comunicazione diretta con i suoi studenti, al freddo ed accademico rapporto classico guardiano-studente svogliato. Come in una tragedia greca, la fonte del dramma resta celata. La si da per scontata poiché interessano le sue conseguenze. L’azione generatrice dell’intera vicenda non è mostrata allo spettatore e Farhadi tesse con questa assenza la sua grande coperta ricamata a mano, fatta di domande, ricerche e punti cruciali.
Trovato il colpevole, Amad crede di sapere bene cosa fare. Poi ci ripensa e finisce per tornare all’idea iniziale. Rana al contrario, quasi in una stramba empatia dolorosa condivisa con il suo aggressore, intercede per la totale liberazione del suo aggressore, liberandolo da ogni colpa e liberandosi da ogni peso. La presa di posizione della donna fa attrito con le meno bonarie intenzioni di suo marito.
Infine l’inaspettata piega della vicenda costringe i due coniugi a farsi qualche domanda. Il totale silenzio dei due negli ultimi minuti di pellicola lascia spazio a visi smorti, decadenti, complici in un singolo segreto. In definitiva Farhadi inscena i continui rovesciamenti della vita, i cambi di marcia di ogni situazione, l’antica complessità che riguarda il discrimine tra ciò che giusto, legittimo e concesso e ciò che non lo è. Non è più un segreto invece il fatto che per guardare un dramma con i contro fiocchi ci sia il bisogno d’attendere l’Iran o la Turchia.