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Robert Mapplethorpe. Le forme del classico a Venezia

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Sull’isola di San Giorgio Maggiore, dove il silenzio lagunare incontra la maestosità architettonica palladiana, si consuma un ritorno atteso da trentatré anni. Robert Mapplethorpe torna a Venezia, e lo fa attraverso uno sguardo che trasforma la carne in pietra, il desiderio in geometria, il corpo umano in statua vivente. Le Stanze della Fotografia ospitano fino al 6 gennaio 2026 “Robert Mapplethorpe. Le forme del classico”, una retrospettiva di oltre 200 opere che rappresenta il primo capitolo di una trilogia espositiva destinata a proseguire nel 2026 tra Milano e Roma.

Non è un caso che questa mostra, curata da Denis Curti e realizzata in collaborazione con la Fondazione Robert Mapplethorpe di New York, si apra proprio nella città che da sempre dialoga con l’eternità dell’arte. Venezia, con le sue superfici riflettenti e la sua luce cangiante, diventa lo specchio ideale per un artista che ha fatto della perfezione formale il suo manifesto esistenziale. Ogni fotografia di Mapplethorpe è una dichiarazione d’intenti: non fotografare, ma scolpire attraverso la luce. Non catturare un istante, ma costruire un’architettura visiva che sfida il tempo.

Storie di grandi fotografi: lo stile di Robert Mapplethorpe

L’uomo che ha trasformato il tabù in bellezza assoluta

Robert Mapplethorpe nasce il 4 novembre 1946 nel Queens, terzo di sei figli in una famiglia cattolica irlandese della media borghesia. È una New York in fermento quella in cui cresce, gli anni Sessanta segnati dalla guerra in Vietnam, dalle rivolte studentesche, dai movimenti di liberazione. Nel 1963 si iscrive al Pratt Institute di Brooklyn per studiare pubblicità, ma ben presto la sua vocazione prende un’altra strada: disegno, pittura, scultura. I primi esperimenti artistici rivelano influenze psichedeliche, echi delle visioni visionarie di William Blake mescolate alla cultura dell’LSD che pervade i suoi coetanei.

L’incontro che segnerà per sempre la sua esistenza avviene nella primavera del 1967: Patti Smith, giovane poetessa appena approdata nella metropoli con il sogno di conquistarla attraverso le parole. Tra Robert e Patti nasce un legame che trascende le categorie convenzionali, un’alchimia fatta di arte, complicità e reciproca ispirazione. Vivranno insieme al Chelsea Hotel, prima come amanti, poi come anime gemelle indissolubili. Patti diventerà il suo primo soggetto fotografico, la musa che Robert ritrae costantemente tra il 1970 e il 1973, fino alla celebre copertina dell’album “Horses” che entrerà nella storia della musica.

Ma è l’incontro con David Croland e successivamente con Sam Wagstaff a dare una svolta decisiva alla carriera di Mapplethorpe. Wagstaff, collezionista d’arte e curatore, non solo diventa il suo compagno di vita ma gli regala nel 1975 una Hasselblad, la macchina fotografica che gli permetterà di ottenere quel controllo assoluto della luce e quella qualità tecnica che trasformeranno i suoi scatti in capolavori riconosciuti a livello mondiale. La precisione tecnica diventa il veicolo attraverso cui Mapplethorpe può finalmente realizzare la sua visione: quella di un’arte che non distingue tra alto e basso, tra sacro e profano, tra pornografia e bellezza sublime.

La sua produzione spazia dai primi collage e ready-made degli anni Sessanta alle polaroid degli anni Settanta, fino alle magistrali stampe ai sali d’argento degli anni Ottanta. Mapplethorpe esplora con uguale dedizione i nudi maschili e femminili, i ritratti di celebrità come Andy Warhol, Susan Sontag, Richard Gere, Yoko Ono, le nature morte di fiori – calle, tulipani, orchidee – trasformati in sculture organiche attraverso il bianco e nero. La serie dedicata alla culturista Lisa Lyon diventa un manifesto: il corpo femminile ritratto con la stessa tensione plastica riservata ai corpi maschili, una celebrazione della forza che sfida i canoni tradizionali della bellezza.

Ma è con “The X Portfolio” che Mapplethorpe spezza definitivamente il confine tra arte e pornografia. Le immagini che ritraggono la scena sadomasochista gay di New York, compreso un autoritratto con una frusta, scatenano scandali e dibattiti. Eppure, anche in quelle fotografie così esplicite, così visceralmente provocatorie, permane lo stesso rigore compositivo, la stessa ossessione per la simmetria che caratterizza i suoi studi floreali. Mapplethorpe non giudica, non censura: osserva con lo stesso sguardo imparziale e formalmente perfetto ogni manifestazione del desiderio umano.

Tra le sue opere più celebri si annoverano i ritratti intensi e carichi di simbolismo – quello con la sigaretta che lo ritrae come perfetto bad boy, quello in smoking che gioca con la teatralità dell’identità – e le serie di nudi che hanno fatto la storia della fotografia contemporanea. Immagini come “Thomas” o “Derrick Cross” mostrano corpi scolpiti dalla luce, pose che rimandano direttamente alla statuaria greca e romana, una tensione formale che rende queste fotografie indistinguibili dalle opere dei grandi maestri del Rinascimento.

Nel 1986 arriva la diagnosi di AIDS. Ma Mapplethorpe, invece di arrendersi, accelera freneticamente la sua produzione creativa. Espande i suoi orizzonti tecnici, accetta commissioni sempre più ambiziose. Nel 1988 il Whitney Museum of American Art gli dedica la prima grande retrospettiva americana. Prima di morire, il 9 marzo 1989 a Boston, fonda la Robert Mapplethorpe Foundation per promuovere la fotografia e finanziare la ricerca sull’AIDS. Patti Smith, nel suo libro “Just Kids”, descrive l’ultimo saluto: parole sussurrate, uno sguardo che conteneva un’intera esistenza vissuta ai margini, nella trasgressione, nell’ossessiva ricerca della bellezza.

Il dialogo silenzioso tra passato e presente

La mostra veneziana non è una semplice retrospettiva. È piuttosto un’indagine sul rapporto profondo che lega la fotografia di Mapplethorpe alla scultura classica. Il percorso espositivo, sapientemente orchestrato attraverso cromie che passano dal grigio al rosso intenso, mette in scena confronti puntuali tra i nudi fotografati dall’artista americano e le immagini della statuaria antica. È qui che la tesi curatoriale di Denis Curti trova la sua massima espressione: Mapplethorpe non si limita a guardare all’antico, ma lo reinterpreta e lo rinnova, accentuando il dialogo tra il corpo vivo e la scultura ideale.

Le statue classiche, dominate da una sessualità incompiuta, marmorea, vengono come sciolte dall’obiettivo di Mapplethorpe. La rigidità della pietra si trasforma in carne pulsante, la perfezione astratta diventa sensualità tangibile. Eppure, paradossalmente, i corpi viventi fotografati da Mapplethorpe assumono la stessa qualità atemporale delle statue: sono là, immobili, perfetti, sottratti al flusso del tempo. La luce gioca un ruolo fondamentale in questa trasformazione. Mapplethorpe studia ossessivamente ogni dettaglio dell’illuminazione, creando contrasti drammatici che modellano i corpi come uno scultore plasma l’argilla.

La mostra presenta anche una selezione dei primi collage e ready-made realizzati sul finire degli anni Sessanta, opere in cui Mapplethorpe combinava disegni, ritagli di riviste omoerotiche e oggetti trovati. Questi lavori, alcuni dei quali mai esposti prima in Italia, testimoniano un’inquietudine creativa incessante, una ricerca che non si limita alla fotografia ma spazia attraverso diversi media. Gli autoritratti perturbanti mostrano un’identità in costante trasformazione, sempre in bilico tra dimensione pubblica e privata, tra provocazione e introspezione.

Particolarmente suggestiva è la sezione dedicata ai fiori, quelle nature morte che Mapplethorpe considerava equivalenti ai nudi umani. Un tulipano fotografato da Mapplethorpe non è semplicemente un fiore: è un organismo carico di erotismo, svelato nella sua nudità vegetale, con pistilli e stami che diventano elementi di una composizione poetica ambigua e delicata. Le calle, bianche e sinuose, assumono forme quasi antropomorfe. Le orchidee si aprono allo sguardo con una sfrontatezza che ricorda le pose più audaci dei suoi modelli umani.

Accanto alle fotografie, la mostra espone materiali d’archivio provenienti dalla Fondazione Mapplethorpe: lettere personali scritte a mano – come quel biglietto che recita semplicemente “I miss you. I lost your number”, frase banale eppure universale – dischi, manifesti, edizioni rare. C’è anche una cassettiera con un invito a non fotografare, contenente piccoli frammenti di vita che restituiscono l’uomo dietro il mito, dietro l’ossessione della perfezione formale. Vengono proiettati due cortometraggi firmati dallo stesso artista, testimonianze rare del suo interesse per il cinema e il movimento.

La trilogia dell’eros e della bellezza

“Le forme del classico” è concepita come apertura di un progetto più ampio. Nel 2026 la trilogia proseguirà con “Le forme del desiderio” a Palazzo Reale di Milano, dove verranno esposte le opere più audaci e potenti di Mapplethorpe, quelle che hanno suscitato maggiori polemiche e che nella selezione veneziana sono state volutamente ridimensionate per privilegiare una lettura più misurata e classicheggiante. Il capitolo finale, “Le forme della bellezza”, si terrà al Museo dell’Ara Pacis di Roma e si concentrerà sulla visione della bellezza come classicità, con una selezione dedicata alle fotografie scattate in Italia, alcune delle quali presentate per la prima volta al pubblico.

Ogni sede adotterà dunque un taglio specifico, offrendo sfaccettature diverse della produzione mapplethorpiana. Se Venezia si concentra sul dialogo con l’antico, Milano esplorerà la dimensione trasgressiva e Milano quella della bellezza assoluta. Un percorso che nel suo insieme mira a restituire la complessità di un artista che ha saputo essere contemporaneamente apollineo e dionisiaco, formale e visceralmente fisico.

L’ultima grande mostra veneziana dedicata a Mapplethorpe risaliva al 1992, quando Germano Celant curò a Palazzo Fortuny la retrospettiva “Tra antico e moderno. Un’antologia”. Quella mostra scatenò un dibattito che costrinse gli organizzatori a vietare l’ingresso ai minori. Trentatré anni dopo, il ritorno di Mapplethorpe a Venezia avviene in un contesto culturale diverso, ma l’artista continua a interrogare, a provocare, a sfidare le convenzioni. La sua capacità di rendere visibile l’invisibile, di portare alla luce ciò che la società vorrebbe relegare nell’ombra, rimane intatta.

L’eredità di uno sguardo rivoluzionario

Camminando tra le sale delle Stanze della Fotografia si ha la sensazione di attraversare un tempio laico dedicato alla forma. Ogni immagine è una preghiera rivolta alla bellezza, un atto di fede nella possibilità che l’arte possa redimere anche ciò che appare più estremo, più marginale, più scandaloso. Mapplethorpe è riuscito nell’impresa impossibile di fare della cultura underground materia d’arte per musei e collezionisti, senza però tradirne la carica sovversiva originaria.

La sua lezione rimane attualissima: in un’epoca dominata dalle immagini digitali, dalla proliferazione incontrollata di fotografie, dalla facilità della riproduzione, le opere di Mapplethorpe ricordano che la fotografia può essere un’arte della precisione, della costruzione meticolosa, della pazienza compositiva. Ogni suo scatto è frutto di ore di preparazione, di aggiustamenti millimetrici, di un controllo ossessivo su ogni elemento della scena. Non esistono casualità nelle fotografie di Mapplethorpe: tutto è voluto, pensato, architettato.

Eppure, dietro questa rigidità formale, pulsa un’energia vitale irrefrenabile. I corpi ritratti da Mapplethorpe non sono mai freddi manichini, ma organismi viventi colti nel momento di massima tensione espressiva. C’è sempre un sottile gioco tra controllo e abbandono, tra apollineo e dionisiaco, tra la perfezione della forma e l’urgenza del desiderio che quella forma racchiude e al tempo stesso tradisce.

La mostra veneziana si arricchisce anche di un’iniziativa collaterale: un’open call rivolta a fotografi e fotografe tra i 18 e i 30 anni, invitati a confrontarsi con l’opera di Mapplethorpe inviando tre fotografie ispirate al suo lavoro. Le nove opere finaliste, selezionate da una giuria composta da figure di spicco del mondo dell’arte e della fotografia, saranno esposte durante la MIA Photo Fair di Milano nel marzo 2025 e successivamente integrate nel percorso espositivo veneziano. Un modo per creare un ponte generazionale, per interrogare le nuove generazioni su cosa significhi oggi la ricerca della bellezza, su come il linguaggio di Mapplethorpe possa essere riletto e reinterpretato.

In un’intervista, Mapplethorpe dichiarò: “Sono ossessionato dalla bellezza. Voglio che tutto sia perfetto, e naturalmente non lo è. E questo è un mondo difficile, perché non si è mai soddisfatti”. Questa tensione verso l’irraggiungibile, questa insoddisfazione perpetua, è forse ciò che rende le sue fotografie ancora così potenti, ancora così capaci di interrogarci. Non sono immagini che offrono risposte, ma opere che moltiplicano le domande: cos’è la bellezza? Dove finisce l’arte e dove inizia la pornografia? È possibile rappresentare il desiderio senza tradirlo? Può la forma redimere qualsiasi contenuto?

Uscendo dalla mostra, con lo sguardo ancora pieno di quei corpi marmorei e al tempo stesso vivi, di quei fiori carnali, di quei ritratti che sembrano guardare attraverso di noi, si porta via la certezza che Mapplethorpe non sia stato semplicemente un fotografo, ma un visionario che ha utilizzato la macchina fotografica come strumento filosofico. Uno strumento per interrogare i confini della rappresentazione, per sfidare i tabù della società, per rivendicare il diritto di ogni corpo, di ogni identità, di ogni forma di amore, di esistere nella luce piena della bellezza. E questa, forse, è la sua eredità più preziosa: averci insegnato a guardare senza paura, senza giudizio, con quella stessa ossessiva attenzione al dettaglio che trasforma ogni soggetto in un’opera d’arte.

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