Quando le porte della cappella di Laennec si sono aperte quella sera di sabato, ho capito immediatamente che stavo per assistere a qualcosa di diverso. La location, costruita durante il regno di Luigi XIII e parte della storica sede di Kering, emanava una solennità che raramente si respira durante la Fashion Week parigina. Era lo stesso luogo che solo tre mesi prima aveva ospitato la retrospettiva di Demna, e questa scelta non era casuale. Pierpaolo Piccioli voleva onorare chi era venuto prima di lui, tracciare una linea di continuità, non cancellare il passato con un gesto iconoclasta.
Mi sono ritrovata seduta tra volti noti del cinema e della cultura: Anne Hathaway, Kristin Scott Thomas, il regista Baz Luhrmann e, a sorpresa, Meghan Markle alla sua prima apparizione assoluta alla Paris Fashion Week. L’aria era densa di aspettativa. Tutti si chiedevano come l’uomo che aveva definito l’estetica di Valentino per venticinque anni avrebbe interpretato il linguaggio radicale di una maison fondata da un visionario spagnolo e trasformata in fenomeno globale da talenti come Nicolas Ghesquière e Demna.
L’apertura: libertà e struttura
Il primo look è apparso come una dichiarazione d’intenti: un lungo abito nero scivolato, versione contemporanea del celebre “sack dress”, accompagnato da guanti bianchi tirati oltre i gomiti e visiere avvolgenti che coprivano metà del volto della modella. Ho trattenuto il respiro. Quel vestito, introdotto nel 1957, rappresentò una rottura radicale con le forme rigide a clessidra dell’epoca, e Piccioli lo aveva scelto come apertura non per nostalgia, ma per ribadire un concetto potente: la moda deve liberare le donne, non costringerle.
Nel backstage, tra l’eccitazione post-show, il designer mi ha spiegato con quella passione che lo contraddistingue: “Quell’abito è così rilevante e significativo, perché ha liberato le donne dalle loro restrizioni”. E mentre parlava, ho compreso la profondità della sua visione. Piccioli ha costruito questa prima collezione per Balenciaga su nuove versioni dei tessuti gazar che il fondatore utilizzava per ottenere volume con leggerezza, il suo lascito più importante.
Il dialogo con il passato e il presente
Camminando tra le file dopo la sfilata, ho notato la presenza di Giancarlo Giammetti, storico partner d’affari di Valentino Garavani, arrivato con Georgina Brandolini, musa e collaboratrice del couturier romano. La loro presenza testimoniava il rispetto che Piccioli si è guadagnato nel corso della sua carriera, ma anche quanto il mondo della moda volesse vedere come avrebbe navigato questo nuovo capitolo.
I riferimenti al fondatore erano evidenti e intelligenti: versioni in T-shirt, camicia bianca e mantello di pelle nera del famoso ensemble nuziale del 1967 che ricordava Darth Vader; numerosi abiti e gonne a palloncino, i più impressionanti in pelle nera. Ma Piccioli non si è fermato a un mero esercizio di archivio. Ha saputo tessere un dialogo a tre voci tra Cristóbal Balenciaga, Demna e se stesso.
Il celebre abito tulipano è stato contaminato con la sensibilità streetwear di Demna in bermuda larghi, a volte in khaki, a volte in denim strappato. I jeans apparivano in versioni a gamba larga che trascinavano sotto i piedi, come avrebbe voluto Demna, ma senza il fango. Un omaggio rispettoso ma personale.
I colori della passione
Quello che mi ha colpito visceralmente, però, è stato l’uso del colore. Tocchi di viola, ciano e giallo evidenziatore emergevano dalla collezione come lampi di gioia pura. Piccioli è sempre stato un maestro nell’uso dei colori vibranti, e vedere questa sua firma distintiva applicata al DNA di Balenciaga è stato come assistere a una fusione alchemica. Mi sono ricordata di come il suo rosa elettrico aveva dominato i red carpet e i guardaroba personali negli anni successivi al 2022, diventando un fenomeno culturale globale.
Ma qui i colori non erano decorazione: erano affermazione di vita, di energia, di un’eleganza che non ha paura di essere vista. Ogni sfumatura sembrava dialogare con i volumi scultorei, con le strutture architettoniche che definivano silhouette inedite eppure familiari.
La sensualità ritrovata
Piccioli ha dimostrato di essere in sintonia con l’ossessione attuale della moda per il ritorno della sensualità: le sue camicie corte e i top in pelle rivelavano ampie porzioni di midriff tonici. Non era provocazione fine a se stessa, ma celebrazione del corpo femminile, della sua forza e della sua grazia. Alcuni top presentavano aperture a V sia sul davanti che sul retro, quest’ultima si allungava ben sotto la nuca, creando un effetto di vulnerabilità controllata che mi ha fatto pensare alla complessità dell’essere donna oggi.
C’erano giacche in pelle e top sperimentali, alcuni che lasciavano scoperto il ventre, altri con tagli che richiamavano le creazioni provocatorie e spesso virali di Demna. Ma Piccioli le aveva reinterpretate con la sua sensibilità, quella che privilegia sempre l’eleganza e il comfort della donna che indossa i suoi abiti.
L’architettura della leggerezza
Il momento più emozionante per me è stato quando ho visto da vicino i tessuti. Piccioli ha sottolineato l’uso del gazar, una forma di seta o lana introdotta da Balenciaga in collaborazione con l’azienda tessile svizzera Abraham nel 1958, realizzata con due filati invece di uno. “Il paradosso è che crea più struttura ma meno peso”, mi ha spiegato, garantendo che i suoi design rimangano leggeri e facili da indossare.
Questa filosofia si estendeva anche alle calzature: alcune modelle indossavano scarpe basse con una cinghia a forma di Y, rifiutando l’idea che l’eleganza debba necessariamente passare attraverso il sacrificio. “Volevo ottenere questo senso di libertà”, ha aggiunto Piccioli, e in quelle parole ho riconosciuto l’eco di Cristóbal Balenciaga stesso, che metteva sempre il comfort di chi indossava i suoi abiti al di sopra delle tendenze.
Gli accessori come dichiarazioni
Gli alti cappelli da cavallerizza e i cappotti a forma di uovo con grandi bottoni erano un’eco della collezione autunno 2006 di Ghesquière per Balenciaga, mentre le borse hanno raccontato una storia di evoluzione continua. Versioni sovradimensionate e minuscole della Le City Bag ci hanno riportato al suo primo accessorio “It”, introdotto nel 2001. C’erano reinterpretazioni di borse di successo come la City e la Rodeo, oltre a modelli più recenti come una versione della bowling bag con fibbie che presentavano il monogramma BB di Balenciaga.
Ogni accessorio sembrava raccontare una storia, creare un ponte tra generazioni di donne che hanno amato questa maison, che l’hanno vista trasformarsi e che ora la vedono entrare in una nuova fase della sua esistenza.
Solo womenswear: un atto di coraggio
La nuova collezione Balenciaga presentava esclusivamente womenswear, una scelta che mi è sembrata coraggiosa e necessaria. In un’epoca in cui molti brand puntano sulla fusione dei generi, Piccioli ha voluto celebrare la donna e il suo rapporto con la couture, ritornare all’essenza di ciò che Cristóbal Balenciaga incarnava: un amore profondo per l’atto di vestire le donne, di creare silhouette rivoluzionarie che attingevano dalla sua eredità spagnola e si concentravano su come i vestiti le facevano sentire, piuttosto che sulle tendenze del momento.
Cristóbal Balenciaga vestì donne eleganti come Grace Kelly e Audrey Hepburn. Lo stesso si può dire di Piccioli, le cui muse includono l’attrice francese Isabelle Huppert, i cui ritratti sono stati condivisi come anteprima prima dello show. Questa continuità spirituale era palpabile in ogni look che sfilava davanti ai miei occhi.
L’ovazione finale
Quando Piccioli è uscito per l’inchino finale, ho sentito un’emozione che raramente provo alle sfilate. Ha ricevuto una standing ovation dal pubblico, che includeva alcuni membri della sua famiglia in prima fila. In quell’applauso c’era il riconoscimento di qualcosa di più grande di una semplice collezione di successo: c’era la celebrazione di un approccio alla moda che mette al centro l’umanità, la gentilezza, il rispetto per chi è venuto prima e per chi verrà dopo.
La calligrafia inimitabile di Piccioli – le sue silhouette aggraziate e scultoree, il suo uso opulento del colore, il suo romanticismo – brillava attraverso ogni pezzo, spingendo Balenciaga in una direzione nuova ed eccitante. Non era una rivoluzione violenta, ma un’evoluzione consapevole, quella che si compie quando si ha il coraggio di guardare indietro per andare avanti.
Una visione per il futuro
Uscendo dalla cappella quella sera, con il rumore delle conversazioni eccitate che riempiva l’aria parigina, ho riflettuto su quello che avevo appena visto. Piccioli si è unito a Balenciaga in un momento difficile: il proprietario Kering sta affrontando vendite in calo e una serie di avvertimenti sui profitti a seguito di un rallentamento dell’intero settore. Ma le reazioni immediate dopo lo show hanno dimostrato che assumere uno dei pochi grandi couturier di questa generazione è stato un ottimo inizio.
Questa collezione Spring Summer 2026 non era solo un insieme di abiti bellissimi: era una dichiarazione filosofica su cosa significhi fare moda oggi. Significava onorare il passato senza esserne schiavi, abbracciare il cambiamento senza perdere la propria identità, creare bellezza che liberi invece di costringere. Piccioli mi aveva detto nel backstage: “Non voglio negare ciò che c’è stato qui prima”, e in quelle parole semplici c’era tutta la saggezza di chi capisce che il vero lusso non è nell’esclusione ma nell’inclusione, non nella rottura ma nel dialogo.
Mentre camminavo verso l’uscita, ho guardato ancora una volta quella cappella storica, testimone silenziosa di secoli di storia, e ho pensato che forse il futuro di Balenciaga è nelle mani giuste. Nelle mani di qualcuno che sa che la moda è un atto d’amore verso chi la indossa, e che l’eleganza più alta è quella che si accompagna alla gentilezza.
Direttore editoriale di nonewsmagazine.com | Il magazine dell’ozio e della serendipità.
Direttore responsabile di No News | La free press dell’ozio milanese.
Viaggiatore iperattivo, tenta sempre di confondersi con la popolazione indigena.
Amante della lettura, legge un po’ di tutto. Dai cupi autori russi, passando per i libertini francesi, attraverso i pessimisti tedeschi, per arrivare agli amori sofferti tra le campagne inglesi. Tra gli scrittori moderni tra i preferiti spiccano Roddy Doyle, Nick Hornby e Francesco Muzzopappa.
Melomane vecchio stampo, c’è chi lo chiama “il fondamentalista del Loggione”. Ama il dramma verdiano così come le atmosfere oniriche di Wagner. L’opera preferita, tuttavia, rimane la Tosca.