Omosessualità, AIDS, attivismo e minoranze. Questo è il coagulo mostrato da 120 Battiti al minuto, il film di Robin Campillo vincitore del preziosissimo Grand Prix al festival di Cannes. Un film prepotente ma claustrofobico, un martello sulla coscienza. Sarà nelle sale italiane dal 5 ottobre, distribuito da Teodora Film.

Spassosi davvero i ragazzi della ACT UP, un’organizzazione attivista che si batte per minoranze, omosessuali ma in particolar modo contro le sviste governative e statali per quanto concerne la questione dell’AIDS. Nel pieno degli anni 90′ distribuiscono siringhe in strada, assaltano case farmaceutiche poco chiare sui risultati ottenuti dalle ricerche dei nuovi farmaci, aggrediscono esponenti politici ricoprendoli di sangue finto. Schioccano le dita invece che applaudire; i più fanno semplicemente “i sieropositivi” e non lavorano. Si amano, si scontrano, si aiutano e lottano assieme.

Ma la lotta dei ragazzi di ACT UP è mossa contro nemici sempre più grandi, troppo grandi per dei semplici attivisti. Lo stato fa poco, non aiuta la prevenzione, dunque bisogna organizzarla in modi alternativi, invadendo aule scolastiche per distribuire profilattici. La malattia poi, L’AIDS, è mostrata nel film di Campillo in tutte le sue fattezze, scandita per bene stato dopo stato. Come la stessa esistenza di uno dei sieropositivi del film. 120 battiti al minuto parte energico, spavaldo, con la forza di un carro armato. Irriverente, spinto, festaiolo. Mette in mostra con elegante estetica femminea un culto dei corpi, corpi malati vero, ma che ancora riescono a nasconderlo, riescono a nasconderlo perfino a loro stessi. I bagliori delle luci da disco sui volti, i baci velenosi dati dalla cieca passione, il consumarsi di rapporti omosessuali nella loro più pura intimità, nella loro impudicizia, dissolvendosi nel sesso cannibalesco. Ci sono poi i dibattiti, i disaccordi sui punti di vista politici che mostrano in pieno la totale impossibilità di fare qualcosa. Fare , certo, ma cosa è davvero un problema. Tutti si muovono ma nessuno sa dove andare, come delle api che hanno perso la regina. Ma il vento cambia. Cambia la malattia, cambiano i corpi, cambia il tempo. Tempo, ciò che mi pare di ripetere fino alla nausea. 120 battiti al minuto sa fare una scultura del tempo, tempo che sottostà come sostrato ai vari soggetti del film, li scruta dagli abissi, ne è testimone. Tempo è il grande nemico insormontabile dei sieropositivi che vogliono vivere e devono farlo più velocemente degli altri , devono affannarsi, devono moltiplicare i propri battiti cardiaci per vivere al doppio della velocità, nel tentativo di non perdere nulla, irrimediabilmente, perdendo tutto. Si perde l’amore, si perdono le amicizie, si perde. Si perde perché negli anni 90 l’AIDS ha vinto. Oggi si tiene testa.

Dove la prima parte del film brillava d’entusiasmo, la seconda è una vera e propria stanza senza porte e finestre. La speranza è volata via. Si resta come in un incubo, intrappolati in uno spazio angusto e claustrofobico, tra medicinali, siringhe a cui bisogna prestare attenzione perché ovviamente infette, e corpi smorti che vanno trasportati, debellati e mortificati dalla malattia e dal tempo. Non si balla più. Non si canta. Si aspetta.

Lungo tutta la lunga proiezione della pellicola si ascolta la straordinaria colonna sonora di Arnaud Rebotini, che si arresta sui titoli di coda lasciandoci in un silenzio tombale mentre la sala comincia a svuotarsi. Non più un ticchettio, non più un sospiro. Il tempo non si conta più, è andato altrove anche lui. La morte si tinge di nero e bianco e scorre come il sangue finto sui muri della casa farmaceutica.

Un colpo basso mosso contro le coscienze quello di Campillo. Qualche volta però è bello lasciarsi colpire.