Per i fortunati, in alcune sale italiane potrete vedere dal 28 dicembre Alps, il secondo lungometraggio del regista greco Yorgos Lanthimos.

Un’infermiera, una ginnasta, il suo maestro ed un uomo di cui si sa poco e nulla; assieme sono le alpi. Lo strano gruppo si riunisce in una palestra e porta avanti la macabra e clandestina attività che sostituisce le persone defunte per chi lo richiede, incarnando abitudini, gesti e modi di fare di chi non è più in vita, nascondendo il dolore di vedovi e famiglie che hanno perso figli.

Alps è targato 2011 ed è una bella sorpresa trovarlo in alcune sale. Il problema è che sia una sorpresa, un regalo di natale di una singola distribuzione, nulla di più.

Con Alps, Lanthimos porta avanti il discorso familiare già cominciato con Kynodonthas. Impasta il suo cinema con la stessa freddezza cerebrale e richiede ancora una sforzo non indifferente nello spettatore. La confezione si schiera nel contesto della nuova corrente greca, cinema critico e crudo che ha trovato consenso anche in altri paesi europei, l’Austria su tutti probabilmente.

Se Kynodonthas de-costruiva la logica familiare dall’interno con una micro società circuente e dittatoriale, Alps fa l’esatto contrario. La spinta giunge dall’esterno. Gli attori che prendono i nomi delle alpi, come “monte rosa” e “cervino” sono gusci vuoti che si lasciano riempire su commissione, come formati dalla scuola di Stanislavskij senza aver appreso nulla.

Le famiglie distrutte accolgono in casa degli automi, che ripetono come mangianastri frasi tipo. Lanthimos scarnifica l’immedesimazione non per lanciare in modo sciatto il concetto dell’impossibilità di sostituire qualcuno (cosa che all’interno del film avviene con successo, creando una nuova logica a cui dobbiamo fin dall’inizio del film dare costante fiducia), ma per ridurre all’osso l’ individuo, costruendo sagome che di proprio non hanno nulla. La nuova tragedia greca è il mitema della non-emozione, uno scarto che va a giustificare l’asettico genere di ripresa. Fotografia algida che non è in grado di comunicare nessun tipo di stato, così come le inquadrature statiche.

Il personaggio della ginnasta, con il costante desiderio di danzare su una musica più “pop”, è l’unico tassello bianco nell’intero mosaico nero di Lanthimos. A volte incapace di ripetere frasi banali nei panni di una giovane nipote che fa un regalo a suo nonno, sul finale riesce finalmente ad ottenere un pezzo pop, fuggendo solo parzialmente da questo universo sprovvisto di sensibilità ricostruito dal regista greco.

Questo genere di cinema a tratti pesante e intellettualoide (presuntuoso, se volete), come un gran esperimento filosofico messo su pellicola, viene impreziosito e salvato dalla bellezza della messa in scena, in grado di nascondere i buchi lasciati da quello che può sembrare un tutto fumo e niente arrosto.