Francesca è l’unica figlia di Manfredi, famoso architetto che vive e lavora a Torino. Francesca da molti anni vive a Parigi con la figlia adolescente e suo marito, un ricco finanziere. Dopo essere stato vittima di un incidente domestico, Manfredi chiederà a sua figlia di fare le sue veci in un progetto di una villa sul lago per una giovane coppia. Dovrà collaborare con Massimo, pupillo del padre. Dopo un primo approccio difficile tra Massimo e Francesca nasce sintonia professionale e sentimento, costringendoli a confrontarsi con i loro destini.
Essere cattivi poi fa sempre male. Viene il mal di stomaco, il mal di testa. Provoca anche disturbi intestinali. Per questo motivo ci andremo piano.
Dove non ho mai abitato è un buco nell’acqua, noioso, pretenzioso, che si fa carico di profondi sentimenti umani per poi bistrattarli, prenderli in giro e condensarli in un film addensatissimo, pieno di tutto ciò che normalmente ci fa sbraitare di una banalissima fiction italiana da prima serata.
Il dato positivo, per assurdo, è la pretesa. Il film di Franchi parte da buonissime idee. C’è Massimo, erede spirituale del vecchio architetto Manfredi, che sa costruire con bravura e passione case per le altre famiglie, senza aver mai avuto tempo e desiderio di costruire la propria. Guarda commosso in ascensore la sua ex fidanzata ormai sposata e con un figlio. Ha una relazione instabile con una donna che per certi versi vuole vivere una vita propria, senza vincoli. Si rintana nella casa di suo fratello dove ci sono sua moglie e i suoi due bambini.
Poi c’è Francesca, criticata da suo padre per la vita che conduce. Si è trasformata in una decadente borghese che non vuole fare nulla, che sopravvive alla sua esistenza perché circondata dal minimo sindacale dell’affetto e da comodità economica. Suo padre profetizza per lei l’angoscia di voltarsi dietro a cinquantanni per scoprire di non aver mai vissuto davvero.
Fin qui tutto bene. Due caratterizzazioni, se non originali all’estremo delle forze, per lo meno dignitose, meritevoli di una sceneggiatura.
Poi Franchi decide che è giunta l’ora di fare un minestrone, e allora le fila di queste due esistenze mai proiettate verso il futuro sono legate assieme. Nasce un rapporto amoroso, solo sul finire del film, che lascia chi osserva esterrefatto, incredulo, abbagliato sì per la velocità di tutta la vicenda. Sarà pure lecito che in una situazione come questa due personalità fragili comincino a provare sentimenti l’uno per l’altra? Certo, ma noi non ce ne accorgiamo neanche. Dobbiamo credervi per fede. Tutto si fa abbozzo, tutto è un lasciato tra le righe. Dobbiamo lavorare d’intuito e d’immaginazione per chiudere un cerchio decente e vedere finalmente assieme Francesca e Massimo bruciare di passione.
Insomma, questo amore al tempo degli architetti si poteva mostrare meglio, quantomeno in modo poco più esaustivo, e concreto, non necessariamente sviscerando l’indicibile, ma costruendo il minimo indispensabile per una buona fotografia dell’amore passionale, fugace e clandestino.