Una biografia dalle tinte letterarie, frutto del sodalizio tra Michael Grandage e John Logan che immergono un magnetico Jude Law nei tormenti artistici dello scrittore Thomas Wolfe. Dal 9 novembre al cinema.
Genius ci racconta la vita di Tom Wolfe, romanziere americano, eccentrico sognatore in miseria. I suoi giorni d’anonimato terminano nel momento in cui l’editore Maxwell Perkins decide di dargli una possibilità, costruendo con lo scrittore un rapporto che va al di là dei contratti di lavoro.
La sceneggiatura di Logan si permea di libresco e la pellicola acquisisce l’esatto tono che dovrebbe avere. Raccontare Tom Wolfe è tuffarsi in pagine e pagine, così tante da creare alcuni problemi nell’amico editore Max, diviso tra la genuinità dell’arte e le forzature imposte dal gusto del vasto pubblico. Si sa, non tutti apprezzano i mattoni di Tolstoj e a volte l’editoria è costretta a fare qualche sacrificio, tagli che per Wolfe sono vere e proprie lacerazioni dell’anima, seppure felice del suo successo mondiale.
Genius sa parlare d’intesa intellettuale, di un’amicizia suggellata da quel monarca chiamato letteratura, con tutte le divergenze che ne conseguono. La continua lotta tra il “corretto” e lo “spontaneo” funge da ostacolo nella testa di Wolfe, ereditario di quella facoltà divina chiamata genio. La pellicola si presenta sul falsetto del biopic classico, senza trovate stupefacenti. Regia anonima e asciutta, appiattita su se stessa.
A dare corpo al progetto un impeccabile Jude Law, un concentrato turbolento di parole e gesti che riempie l’obiettivo in ogni sequenza, proprio ciò che, al contrario, non riesce minimamente alla Kidman e al suo ruolo periferico nella narrazione. Lo stesso discorso non vale per Colin Firth seppure il suo personaggio non sia di rilievo come i suoi precedenti Hanry Wotton e re Giorgio VI; Firth ha fatto del “serioso immobile” il suo costume preferito.
Non mancano i tempi morti: numerose le sequenze che inchiodano di colpo su vicoli ciechi e passaggi fasulli per allungare il brodo. Tirando le somme parliamo di una confezione sufficiente, una pellicola che trascina con affanno, attraverso il fascino dei parolieri, in quella New York degli anni 30 che ha lasciato righe e pagine indelebili.




































