Analisi e temi di Knight of cups, il discusso film di Terrence Malick. Dal 9 novembre al cinema.

La quasi-trama di Knight of cups, divisa in spezzoni che prendono nome dalle carte dei tarocchi, ci mostra la vita di Rick, sceneggiatore in crisi che spende il suo tempo tra donne e festini, tra amori sentiti e oppressivi, tra il ciò che si dovrebbe essere e il ciò che si è.

Non ci sono mezze misure con Malick. Mai.

Terrence Malick o lo ami o lo odi, ed è così da sempre, fin dal principio. Ha ammorbato con “La sottile linea rossa”, ha raccontato i rapporti di “To the wonder”, ha filosofato in astratto con “The tree of life”. Ed eccolo che lo ritroviamo ancora una volta nelle nostre sale (finalmente). Le critiche sono le medesime. Malick, da filosofo, fa filosofia. A questo punto diventa complesso star dietro ai marasmi dalle tinte esistenzialiste. Difficile diventa individuare il punto, arrovellarsi sul “senso”, virgolettato anche centinaia di volte perché tanto non c’è nulla da trovare. E nella ricerca di questo “senso” difficile è parlare di cinema fruibile, perché dopotutto la filosofia vera, quella da manuale, al cinema non piace a nessuno.

Malick va quindi liberato. Liberarlo vuol dire sciogliere la visione dei suoi film dal contesto filosofico ed introdurlo in quello meno serio, spirituale, a tratti salvifico, della poesia.

Malick è un poeta con camera in spalla. Knight of cups è pura poesia filmica. La pellicola non va setacciata con quell’occhio critico e razionale, non va cercata la rivelazione, al contrario di quanto se ne possa dire in giro sul cinema malickiano. Knight of cups va sentito, va vissuto. A stento siamo messi di fronte a qualcosa di definibile come “trama”. Possiamo parlare più che altro di narrazione a blocchi, di segmenti di vita, raccontati dalla solita tecnica, quella che rende il tutto un vero e proprio miracolo registico.

Seppure poesia, di qualcosa si deve pur parlare, e se di messaggi vogliamo discutere, quello di Knight of cups è semplice. L’evasione da se stessi non fa che riportare al punto di partenza. Di “inizio” in “inizio” , come suggeriscono la prima e l’ultima parola del film. Siamo le continue reincarnazioni dei nostri vizi. Scandita la spiritualità dello stesso corpo, l’anima della carne. Non c’è prospettiva cartesiana, tanto per fare un po’ di filosofia. Allora tanto vale accettarsi da fanti di coppe quali siamo, smettendo di bramare “la perla” perchè è già nelle nostre tasche.

Le inquadrature di Malick vivificano. Esseri intermedi, dove ogni singola monade è mobilità e il suo esatto contrario. Stupisce, e forse qui sta la grandezza, la totale distanza dall’azione, quella vera. Questa, se c’è, è sempre oltre l’inquadratura. Ciò spinge durante la visione ad un egocentrismo dei sensi, irrefrenabile. Malick restituisce artificialmente quelle sensazioni legate al sublime, all’amore, al magnifico, e spesso a ciò che non siamo in grado di definire a parole. In poche parole filma l’evanescente. Knight of cups è quel tipo di film che fa venir voglia di vivere, di vivere davvero però.