Dal libro omonimo di Matteo Righetto La pelle dell’orso scritto e diretto da Marco Segato. Una caccia alla bestia che nasconde più di quanto si possa immaginare.

Pietro e Domenico vivono in un paesino sulle dolomiti. Pietro, padre burbero consumato dalla solitudine e l’alcol propone una scommessa pericolosa al suo datore di lavoro Crepaz. Si avventura sui monti in caccia del feroce orso che tutti chiamano “diavolo” per riportare la pelle della bestia in cambio di un anno di paga. Domenico decide di mettersi in viaggio per cercare suo padre, aiutarlo nella caccia o riportarlo a casa.

Marco Segato ci propone qualcosa di più di una semplice caccia all’orso, per fortuna, altrimenti più che recarci in sala avremmo preferito un paio d’ore di National Geographic. La pelle dell’orso parte con del buon materiale di base e gran merito va all’idea dello scribacchino, in questo caso parliamo di Matteo Righetto.

Il prologo della vicenda ricorda tanto il cortometraggio “Alberi” di Michelangelo Frammartino, alludendo alla sacralità del rito (nel caso di Frammartino) e del potere del parere comune che inebetisce la comunità, soggiogandola come un demone possessivo.

Tangibile è il logorio di Pietro che ci prova ad avere una vita normale dopo il carcere e dopo l’incidente di sua moglie. La pellicola fa annusare l’aria di chiusura del paese, dove non importa chi sei o chi vuoi essere, importa solo ciò che sei per la gente del posto. Nel caso di Pietro, un violento ubriacone, un “coglione”, come lo apostrofa il datore di lavoro Crepaz interpretato da un Paolo Pierobon non proprio messo a caso.

Cariche di dramma le scene in cui Domenico assiste alle violenze sul genitore all’ingresso del locale del paese, preso a pugni e gettato per terra. La rabbia dell’uomo si riversa sul figlio che prova a sostenerlo ma tutte le volte non può proprio esserci dialogo. Domenico si occupa come può della casa, pulisce gli stivali sporchi di fango e prepara la cena. Quando scopre che suo padre si è messo sulle tracce di diavolo, l’orso che ha ucciso la vacca di un vicino, imbraccia fucile e zaino e si avventura nei boschi.

L’orso funge da mediatore e le tracce lasciate sul terreno consentiranno a padre e figlio un riavvicinamento, la rottura dell’incomunicabilità che li ha sempre tenuti estranei. Pietro è vera figura artemidica, il cacciatore devoto esclusivamente a se stesso e allo stato selvaggio della natura. La pelle dell’orso rappresenta anche il riscatto e la riaccettazione nella comunità che ormai tiene lontano Pietro, tema centrale nell’operato del regista. Nel progetto di Segato la natura è diegetica, parte fondamentale del discorso. L’immobilità delle montagne regna sovrana a dispetto delle durezze d’animo di Pietro che sono costrette a sciogliersi quando suo figlio sta per precipitare da una montagna. La natura è la vera protagonista.

L’anti-spettacolarizzazione della vicenda, il minimalismo in cui la pellicola è immersa e il ritrovamento e la salvaguardia delle pause (queste sconosciute, negli ultimi anni debellate dal cinema italiano) fanno si che La pelle dell’orso si presenti al pubblico come qualcosa di vecchio, da promuovere senza se e senza ma quindi, come una bottiglia di vino pregiato ritrovato in una vecchia cantina.

La direzione è quella giusta, bisogna solo praticarla senza paure.