Tra le pagine del Codice Madrid II, custodito nella penombra della Biblioteca Nazionale di Spagna, si nasconde una frase che attraversa il tempo come una freccia infuocata. Sul foglio 87r, Leonardo da Vinci annotò: “Saranno meglio conservate se scortecciate e bruciate in superficie che in ogni altro modo.” Poche parole, quasi sussurrate dall’inchiostro cinquecentesco, che descrivono la carbonizzazione superficiale del legno – una tecnica che oggi la bioarchitettura riscopre con stupore crescente.
Quando il fuoco protegge invece di distruggere
L’intuizione leonardesca è di una modernità disarmante. Bruciare il legno per renderlo eterno: un paradosso che diventa scienza. La carbonizzazione sigilla i pori, respinge l’umidità, allontana insetti e funghi, trasforma il materiale più vulnerabile in un guardiano silenzioso della propria durata. Mentre i veneziani affondavano pali di quercia nelle acque della laguna sperando nella conservazione passiva, Leonardo immaginava una tecnica attiva, una metamorfosi controllata dal fuoco. Era un pensiero rivoluzionario, nato dall’osservazione empirica e dalla capacità di guardare oltre il presente.
La riscoperta italiana
Il merito di aver riportato alla luce questa annotazione appartiene a tre studiosi italiani: Annalisa Di Maria, esperta internazionale di Leonardo e membro del Centro UNESCO di Firenze, Andrea da Montefeltro, biologo molecolare e scultore, e Lucica Bianchi, storica dell’arte. La loro ricerca ha dimostrato come Leonardo non si limitasse a raccogliere saperi – leggeva Plinio, Vitruvio, Palladio – ma li interrogasse, li scomponesse, li ricreasse. La carbonizzazione superficiale non compare in nessuna delle fonti classiche: è un contributo originale, frutto di quel pensiero sistemico che intrecciava meccanica, botanica e visione architettonica.
Oggi architetti e designer impiegano questa tecnica per facciate ventilate, arredi urbani, rivestimenti ecologici che riducono l’impronta di carbonio. Università e centri di ricerca studiano il potenziale di un metodo nato oltre cinquecento anni fa. Non è nostalgia: è la dimostrazione che l’innovazione autentica nasce anche dal dialogo con le origini, dalla capacità di ascoltare voci lontane che parlano un linguaggio ancora attuale.

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