Presentato al festival di Cannes 2015, Al di là delle montagne riprende e sottolinea temi centrali all’interno del cinema orientale degli ultimi anni. Un film che innesca la riflessione su una porzione di mondo così distante e così diversa.

Liangzi e Zhang, entrambi innamorati di Tao, pongono la donna oggetto della contesa sull’orlo di una scelta che porta il rifiutato Liangzi a cambiare città. Al suo ritorno, dopo 15 anni di assenza, Tao e Zhang hanno divorziato ed hanno un figlio, Dollar, prossimo al trasferimento in Australia. Nel 2025, Dollar è ormai un ragazzo sveglio, che non trova interessi in Oceania e desidera vivere la propria libertà e mantenere vivo il ricordo di sua madre cercando di riavvicinarla con l’incoraggiamento di un’insegnante di lingua cinese che raccoglie le macerie del suo matrimonio.

Jia Zhang-ke confeziona una pellicola complessa, articolata e per certi versi sperimentale; da de-costruire pezzo dopo pezzo.

Diviso in tre parti, il film mostra quello che viene erroneamente fatto passare come un prologo a capo della storia; la presentazione dei personaggi e il fulcro dell’intero sistema registico. La prima parte è appoggiata sullo schermo in un formato 4:3, un grosso rettangolo centrale delimitato dai bordi neri lateralmente. Zhang-ke concentra le dinamica in uno spazio ristretto, corposo e traboccante di senso, di cultura. In due parole: l’oriente. La tradizione, i colori, i modi di fare; i personaggi si muovono nello stesso contesto che ha dato loro la vita.

La vicenda si snoda e passa dal 1999 al 2014. Lo schermo si dilata, si perde la concentrazione dell’immagine che viene spesso frammentata in alcuni squarci sfocati, incomprensibili ed estranei. Se durante la proiezione si è in grado di frugare nella testa del regista, ben presto si capisce come la trama vera e propria sia poco più che superflua ai fini del messaggio che Zhang-ke cela nella sua pellicola.

Nell’ultima parte, la tensione che inizialmente era messa su un secondo piano (vedi le accese dispute tra i due spasimanti) ora è sempre sotto l’obiettivo. Lo schermo è preso per intero solo ora. Il cinema mostrato nel colpo di coda del regista è fruibile, semplice, sotto gli occhi dei più; semplicemente è occidentale. L’Australia del 2025 è popolata da molti cinesi. I cinesi in questione spesso non parlano neanche la propria lingua originaria. Suggestiva la sequenza in cui padre e figlio necessitano di una mediatrice, frammentazione incarnata della cultura orientale degli ultimi decenni. Numerosi primi piani, appiattimento dell’immagine sugli “obliatori” che vagano su sentieri estranei pur credendo d’essere a casa.

Perché Zhang-ke, diciamolo, è qui che vuole andare a parare. Seguendo la scia di molti registi orientali, come Tsai Ming-Liang e Apichatpong Weerasethakul, sottolinea l’importanza delle sue origini e tradizioni. La critica è rivolta a quei suoi conterranei che osservano l’occidente al centro del mondo, lo raggiungono e in esso si lasciano scomporre per sempre. La fuga dalla vita e nella vita non fa parte dello spirito orientale. Se con i registi citati si è reso necessario mostrare l’anti-cinema della stanchezza e dell’attesa, Zhang-ke è stato in grado di far trapelare lo stesso messaggio facendo scorrere le sue immagini più velocemente. Tutto ciò è mostrato con tecnica registica sorprendente, fotografia multiforme che sembra adattarsi ai contesti dei tre differenti periodi, e infine eleganza e sobrietà nella sceneggiatura che non presenta quasi mai problemi.

Un film che non possiamo comprendere a pieno poiché sprovvisti del fattore culturale primario, tuttavia una visione a nostro parere obbligata e necessaria.