Parliamo ancora una volta di Flanagan, regista di “Oculus” e“Before I wake” che questa volta ci racconta le origini del male di Ouija, prequel del film di Stiles White del 2015.
Alice Zander, vedova con due figlie, organizza sedute spiritiche fasulle per spillare qualche soldo ai disperati più farlocchi pur di aiutare economicamente la famiglia. Viene introdotto nello spettacolino l’utilizzo della tavoletta Ouija, strumento che da banale spaventa clienti si rivela un canale con il mondo degli spiriti.
Quando si parla di horror Flanagan è rassicurante. Dopo Somnia, all’ingresso della sala che proietterà Ouija si ha la sensazione che, comunque vada, vedremo un lavoro migliore di quello fatto da Stiles White nel precedente omonimo film. Questa previsione, una volta tanto, non è andata in frantumi.
Flanagan parte da capo, prende sotto braccio il teatrino che nel precedente film fa solo da sfondo e decide di girarci un film. E come lo fa? Discretamente.
Premesso che Ouija 2 si impalca con gli stessi ritmi di un qualsiasi horror degli ultimi anni (con alcune straordinarie eccezioni per fortuna), dove il prologo è un’isola pacifica, con la successiva fascinosa scoperta del male, e solo infine la sua malefica rivelazione. Su questo Flanagan non è in grado di rovesciare nulla e si trascina dietro la matassa della tradizione che assieme ai suoi colleghi sta portando avanti.
Ma la confezione di Flanagan stupisce per alcuni dettagli. Piacevolissima la sequenza della possessione in cui il male più oscuro prende forma tra le mani di Flanagan, quella forme che il primo film non ha pensato di mostrare, un grosso diavolo nero dagli occhi ipnotici. Belle le pause, la souspance e l’exploit finale dove non si ha neanche un minuto per fiatare. Bravissima la piccola Lulu Wilson, dal sorriso spettrale sempre, con effetti speciali e non. Scene da “salto della poltrona” numerosissime, per gli amanti dei micro-infarti. Degna di nota la minore importanza che il rito della tavola rappresenta in sé e per sé. Sembra quasi che gli spiriti, dopo l’evocazione, non abbiano alcun bisogno del giochino di legno. Non c’è totale assenza di cliché (vedi la camminata classica sulla parete) ed altre piccolezze che ormai, più che ricorrenti, sembrano obbligatorie. Essendo un prequel Flanagan non ha neanche l’onere di dover mettere un fine alla vicenda, ma solo il piacere di mostrare ciò che resta di una famiglia a pezzi che si deteriora, con un demone che scorrazza tra i corridoi di un manicomio.
Piacevole, qualche volta scontato e prevedibile ma mai noioso. Decisamente migliore del film che lo succede temporalmente. Un’opera che lascia invariata l’aspettativa che il nome di Flanagan sussurra.