Terry Gilliam, oggi più che mai, ci mostra come sia semplice diventare un’ icona per se stessi. Dal 7 luglio in sala l’ultimo film del regista britannico, forse derivativo, che merita dopotutto molta attenzione.

Il genio dell’informatica Qohen Leth riceve l’incarico di scoprire la difficile e mai trovata soluzione del teorema zero, teorema che spiega l’inesistenza di un senso per l’universo. Qohen, solitario e dai tratti sociopatici che ha scelto di lavorare rintanato in casa sua, vive il suo estenuante compito di ricerca con fatica, interrotto dalle visite della bellissima Bainsley e di un ragazzino di nome Bob, esperto d’informatica. Tutto ciò nell’attesa di una telefonata particolare.

Il punto zero del signor Gilliam è Brazil. In The Zero Theorem c’è tanto di Brazil. C’è un po’ di Parnassus e per fortuna c’è poco o nulla di Tideland. Il regista si guarda le spalle, il passato, per riuscire a parlare al meglio del futuro. Provando ad astrarre questa nuova pellicola, per renderla quantomeno autonoma, è necessaria una riflessione approfondita che sfocia nella filosofia.

The Zero Theorem, come ogni film in grado di giocare con fisica e soprattutto metafisica, non è mai di semplice apprensione. Nerd del futuro che per mestiere risolvono difficilissimi teoremi giocando ad un vero e proprio videogame, gioco virtuale che manda in tilt personaggi e spettatori: loro nel non riuscire, noi nel capire davvero poco. Gilliam monta l’intero film in una dimensione atemporale totalmente estranea. Di film ambientati nel futuro ne abbiamo visti tanti, ma questo entra di diritto tra i più stranianti. Il nostro vagabondare nella visione incalza soprattutto grazie ad una serie di personaggi più che grotteschi che animano la scena, circondando il protagonista (Christoph Waltz) che altro non vorrebbe fare se non attendere la sua telefonata, l’attesa di un Godot Beckettiano del futuro, salvifico e mai visibile, in grado di spiegare il senso della vita. Così Come la telefonata, anche la presa di posizione di Gilliam non arriva.

Innegabile il fatto che l’intera trama ruoti attorno al suo fulcro nichilista, dove l’obiettivo più alto dell’umanità e della scienza sembra essere il trovare non il senso finale dell’universo, ma il suo non-senso. In tutto ciò entra la fede, che in Qohen, nonostante tutto, è intrinseca, incorporata e mascherata dalla misantropia di superficie.

The zero theorem è un film che richiede sacrificio. Proietta in un mondo strambo, alterato ad ogni angolo. La richiesta di pazienza è protratta fino al termine, dove finalmente possiamo cominciare a parlare di questa pellicola, termine in cui la trama si snoda e in un modo o nell’altro lascia un importante codice criptato da decifrare.

Dunque è bello decifrare il senso originario del film di Gilliam, poco meno il codice in sé e per sé. Se come abbiamo detto c’è un forte senso di fede in chi aspetta un Godot al telefono, deludente è il punto di arrivo del mondo parallelo e futuristico del regista. Pur lasciando una porta aperta per ogni tipo d’interpretazione(perché come abbiamo detto, la telefonata non arriva neanche per noi), Gilliam salvifica chi ha amato e chi ha creduto quando si giunge a fine corsa, al di là del vero e del falso, del senso e del non senso, proiettando il “fedele” in una dimensione paradisiaca, come premio per la propria determinazione e caparbietà. Buona la via su cui viaggia il film, meno la sua destinazione, a tratti perfino banale.