Quando le luci si spengono sulla cerimonia di presentazione della Guida Michelin, c’è sempre un momento di silenzio reverenziale. È quello in cui i numeri parlano più delle parole, in cui la tradizione culinaria si fa cifra, statistica, conferma di un primato che sembra inattaccabile. E così, anche per il 2026, Tokyo si conferma la capitale mondiale della gastronomia stellata, con una selezione che lascia letteralmente senza fiato: 526 ristoranti complessivi, di cui 3 tristellati, 26 con due stelle e 122 monostellati. Un pantheon gastronomico che nessun’altra metropoli al mondo può vantare.
La diciannovesima edizione della Guida Michelin Tokyo 2026, presentata il 25 settembre, include anche 13 stelle verdi e 114 Bib Gourmand, testimoniando non solo l’eccellenza culinaria ma anche l’attenzione crescente verso la sostenibilità. Sono numeri che raccontano una storia che va oltre la semplice competizione tra città: parlano di una cultura gastronomica radicata nei secoli, di un rispetto quasi sacrale per gli ingredienti, di una dedizione che attraversa le generazioni come un filo rosso invisibile ma fortissimo.
La filosofia giapponese dell’eccellenza culinaria
Passeggiando per i vicoli di Ginza o nei quartieri meno turistici di Setagaya, si percepisce immediatamente che la cucina a Tokyo non è semplicemente nutrimento. È arte, filosofia, meditazione. Ogni piatto racconta una stagione, evoca un paesaggio, richiama alla mente l’essenza stessa della natura giapponese. Non è un caso che il termine “shokunin” – l’artigiano che dedica la vita intera al perfezionamento del proprio mestiere – sia così centrale nella cultura nipponica.
Questa ricerca della perfezione si manifesta in modi sorprendenti. Gli chef giapponesi possono trascorrere anni, a volte decenni, per padroneggiare una singola tecnica. La preparazione del sushi, ad esempio, richiede un apprendistato che può durare dieci anni o più: i primi anni sono dedicati esclusivamente alla cottura del riso, un elemento considerato così fondamentale che nulla può essere lasciato al caso. Solo dopo aver dimostrato una padronanza assoluta di questo passaggio apparentemente semplice, l’apprendista può passare alla lavorazione del pesce.
L’ascesa di Myojaku: quando la memoria dell’acqua diventa cucina
Il ristorante giapponese Myojaku, guidato dallo chef Hidetoshi Nakamura, è stato promosso da due a tre stelle Michelin nella selezione 2026. Ma cosa rende così speciale questo locale da meritare il massimo riconoscimento della ristorazione mondiale? La risposta risiede in una filosofia culinaria che sfida le convenzioni occidentali del gusto.
Lo chef Nakamura parla di “traccia di memoria nell’acqua”, utilizzando acqua sorgiva sottomarina nei suoi condimenti per evocare lo spirito del “sabi” – quella silenziosa gratitudine verso il mondo naturale che permea la cultura estetica giapponese. È un concetto che può sembrare astratto, quasi esoterico, eppure si traduce in sapori di una purezza disarmante. Ogni boccone diventa un’esperienza sensoriale che va oltre il palato: è un dialogo tra il commensale e la natura, mediato dall’abilità di un maestro che ha fatto della delicatezza la sua firma distintiva.
Il nome stesso del ristorante, Myojaku, deriva da un concetto del filosofo Yusuke Yamaguchi e rappresenta l’idea di trovare la tranquillità nella semplicità. Questa filosofia si riflette in ogni aspetto dell’esperienza culinaria: dall’ambiente minimalista alla presentazione dei piatti, fino alla selezione degli ingredienti che devono esprimere la loro essenza senza artifici.
La nuova generazione di chef stellati: tradizione e innovazione
Tre ristoranti sono stati promossi a due stelle Michelin: Nishiazabu Sushi Shin, dove lo chef Shintaro Suzuki affascina con la sua maestria nel nigiri, Hakuun, che affronta la cucina giapponese con un approccio naturale e grande leggerezza, e Ensui, il cui nome significa “fiamma e acqua”. Questi locali rappresentano perfettamente il dualismo della cucina tokyoita contemporanea: da un lato il rispetto assoluto per le tecniche tradizionali, dall’altro la volontà di reinterpretarle con sensibilità moderna.
Ensui, in particolare, merita un approfondimento. Il nome stesso – fiamma e acqua – richiama le origini della cucina giapponese basate sulla brace e sul dashi, quel brodo prezioso ottenuto da alghe kombu e tonnetto essiccato che rappresenta l’anima di innumerevoli preparazioni. È interessante notare come in Giappone la brace non sia considerata semplicemente un metodo di cottura, ma una filosofia: il “robatayaki”, la cucina alla brace in stile pescatore, richiede una comprensione profonda del fuoco, della temperatura, del timing. Ogni ingrediente ha il suo punto di cottura perfetto, quel momento fugace in cui esterno e interno raggiungono l’armonia ideale.
Il fenomeno della contaminazione culinaria
Uno degli aspetti più affascinanti della scena gastronomica tokyoita è la sua capacità di assorbire influenze straniere trasformandole in qualcosa di unicamente giapponese. Quest’anno, quattordici locali hanno ottenuto per la prima volta una stella Michelin, riflettendo un panorama culinario sempre più eclettico e dinamico.
Tra questi spicca Kibun, dove lo chef di origine francese Ugo Perret-Gallix fonde tecniche giapponesi e francesi in un dialogo gastronomico che supera i confini geografici. Non si tratta di semplice fusion cuisine – termine ormai abusato e spesso sinonimo di confusione stilistica – ma di una sintesi autentica in cui ogni elemento conserva la propria identità pur contribuendo a un risultato completamente nuovo.
Altrettanto significativa è la presenza di Khao, gestito da una coppia che reinterpreta la cultura gastronomica thailandese con ingredienti giapponesi. La cucina thailandese, con la sua complessità di sapori – dolce, salato, acido, piccante, amaro – trova un’espressione inaspettata quando filtrata attraverso la sensibilità nipponica per l’equilibrio e la stagionalità. Anche Ewig, con la sua proposta di cucina austriaca che include piatti tradizionali come la terrina di foie gras e la torta Sacher, dimostra come Tokyo sia diventata un laboratorio globale dove ogni tradizione culinaria può trovare nuova vita.
Il custode di una tradizione centenaria: Kenjiro Kanemoto
Se c’è un momento che commuove anche i critici più cinici durante la cerimonia Michelin, è quando viene annunciato il Mentor Chef Award. Quest’anno il riconoscimento è andato a Kenjiro Kanemoto, proprietario di quinta generazione del ristorante di anguilla Nodaiwa Azabu Iikura Honten, che a 97 anni è lo chef stellato più anziano al mondo ancora in attività.
Novantasette anni. Fermiamoci un attimo a riflettere su questa cifra. Kenjiro Kanemoto ha attraversato quasi un secolo di storia giapponese, ha visto Tokyo ricostruirsi dopo la devastazione della guerra, ha assistito alla trasformazione della città in una megalopoli futuristica. Eppure, ogni giorno, continua a stare dietro al bancone del suo ristorante, preparando l’anguilla con quella stessa maestria che ha affinato nel corso di decenni di pratica ininterrotta.
La preparazione dell’anguilla – “unagi” in giapponese – è considerata una delle arti culinarie più difficili da padroneggiare. Richiede non solo abilità tecnica nella sfilettatura e nella grigliatura, ma anche una comprensione profonda delle caratteristiche di ogni singolo pesce. L’unagi deve essere grigliato sulla brace di carbone “binchotan” a una temperatura precisa, pennellato con una salsa “tare” che può essere stata tramandata per generazioni, ottenendo quella croccantezza esterna e quella morbidezza interna che definiscono la perfezione.
Ma il valore di Kanemoto va oltre la sua abilità tecnica. È un ponte vivente tra passato e futuro, un maestro che trasmette la sua arte al figlio e al nipote – la sesta e settima generazione della tradizione familiare. In un mondo ossessionato dalla novità, dalla rottura, dalla rivoluzione, la sua presenza ricorda che l’eccellenza autentica si costruisce attraverso la pazienza, la dedizione, il rispetto per chi è venuto prima di noi.
La sostenibilità come nuova frontiera dell’alta cucina
L’assegnazione di una Stella Verde Michelin a Trois Visages, che utilizza verdure ed erbe della propria fattoria e riduce gli sprechi alimentari, segna un’evoluzione significativa nella valutazione dell’eccellenza gastronomica. Non basta più che un piatto sia delizioso: deve anche essere etico, sostenibile, rispettoso dell’ambiente e delle comunità locali.
Questa svolta riflette una consapevolezza crescente tra gli chef giapponesi riguardo al proprio ruolo nella società. Il concetto di “mottainai” – un termine intraducibile che esprime rammarico per lo spreco – è profondamente radicato nella cultura giapponese, ma solo recentemente ha trovato applicazione sistematica nell’alta cucina. Trois Visages rappresenta un modello virtuoso: coltivare i propri ingredienti significa non solo garantirne la freschezza e la qualità, ma anche ridurre l’impatto ambientale del trasporto, supportare l’agricoltura locale, preservare varietà vegetali autoctone che altrimenti rischierebbero l’estinzione.
L’arte del servizio: quando l’ospitalità diventa poesia
La cucina giapponese non sarebbe tale senza il concetto di “omotenashi” – quell’ospitalità genuina, anticipatrice dei bisogni del cliente, che trasforma un pasto in un’esperienza indimenticabile. Il Service Award è andato a Yasuyo Kumagae di Piao-Xiang, mentre il Sommelier Award è stato conferito a Tsuyoshi Nakamura di Manoir, riconoscendo a entrambi un talento naturale nel creare esperienze perfette e personalizzate.
L’omotenashi va oltre il servizio cortese. È la capacità di leggere l’umore del cliente, anticiparne i desideri, adattare l’esperienza alle sue esigenze specifiche senza mai risultare invadenti. È l’arte di far sentire ogni ospite unico, speciale, al centro di un’attenzione discreta ma totale. Questo approccio richiede anni di formazione: i camerieri nei ristoranti di alto livello a Tokyo studiano non solo le tecniche di servizio, ma anche psicologia, comunicazione non verbale, storia della gastronomia.
Nel caso di un sommelier come Tsuyoshi Nakamura, l’abilità sta nell’abbinare vini che non solo completino i piatti, ma che dialoghino con la sensibilità del cliente, con i suoi ricordi, con le sue aspettative. È un esercizio di empatia raffinata, in cui ogni bottiglia racconta una storia che deve risuonare con quella di chi si siede al tavolo.
Tokyo: un modello per il futuro della gastronomia
Cosa ci insegna il dominio incontrastato di Tokyo nel panorama gastronomico mondiale? Innanzitutto che l’eccellenza richiede tempo, pazienza, umiltà. In un’epoca di chef celebrity e programmi televisivi che promettono successo immediato, i maestri giapponesi ricordano che la vera grandezza si costruisce attraverso decenni di pratica silenziosa, di perfezionamento continuo, di rispetto per la tradizione.
In secondo luogo, Tokyo dimostra che innovazione e tradizione non sono antitetiche. I nuovi ristoranti stellati della guida 2026 spaziano dalla cucina giapponese più ortodossa alle interpretazioni contemporanee di tradizioni culinarie straniere, eppure tutti condividono un elemento comune: il rispetto assoluto per gli ingredienti e per le tecniche che permettono di esaltarli.
Infine, la capitale giapponese ci ricorda che la gastronomia è cultura nel senso più ampio del termine. Non è solo cibo, ma filosofia, estetica, etica, memoria collettiva. Ogni piatto servito in un ristorante stellato di Tokyo porta con sé secoli di storia, generazioni di artigiani che hanno dedicato la vita al perfezionamento di un gesto, di una tecnica, di un sapore.
Mentre altre città rincorrono il modello tokyoita, la capitale giapponese continua a evolversi senza mai tradire se stessa. È questo, forse, il suo vero segreto: la capacità di guardare al futuro con gli occhi della tradizione, di innovare rimanendo fedeli a un’identità profonda, di accogliere il mondo intero senza perdere la propria anima.

Direttore editoriale di nonewsmagazine.com | Il magazine dell’ozio e della serendipità.
Direttore responsabile di No News | La free press dell’ozio milanese.
Viaggiatore iperattivo, tenta sempre di confondersi con la popolazione indigena.
Amante della lettura, legge un po’ di tutto. Dai cupi autori russi, passando per i libertini francesi, attraverso i pessimisti tedeschi, per arrivare agli amori sofferti tra le campagne inglesi. Tra gli scrittori moderni tra i preferiti spiccano Roddy Doyle, Nick Hornby e Francesco Muzzopappa.
Melomane vecchio stampo, c’è chi lo chiama “il fondamentalista del Loggione”. Ama il dramma verdiano così come le atmosfere oniriche di Wagner. L’opera preferita, tuttavia, rimane la Tosca.