Nelle sale silenziose del Mauritshuis a L’Aia, da oltre tre secoli un paio di occhi interrogano ogni visitatore che si ferma davanti alla tela. Lo sguardo enigmatico della “Ragazza con l’orecchino di perla” di Johannes Vermeer ha generato più domande che risposte, trasformando questo dipinto del 1665 in uno dei misteri più affascinanti della storia dell’arte. Ma ora, le ricerche dello storico britannico Andrew Graham-Dixon potrebbero aver finalmente sollevato il velo su questa figura immortale.

Un’indagine lunga trent’anni negli archivi olandesi

Graham-Dixon ha dedicato anni a scavare negli archivi di Delft, la città natale di Vermeer, un lavoro certosino che lo ha portato a una scoperta cruciale: l’ubicazione perduta della Golden Eagle, la residenza dei principali mecenati del pittore, Pieter Claesz van Ruijven e sua moglie Maria de Knuijt. Questa casa si trovava lungo il canale Oude Delft, nel cuore della città vecchia, in una posizione tutt’altro che casuale.

Le conclusioni di questa ricerca, raccolte nel saggio “Vermeer: A Life Lost and Found” pubblicato nell’ottobre 2025, propongono un’identità precisa per la giovane donna del dipinto: Magdalena van Ruijven, figlia dei mecenati del pittore. Nata nel 1655, Magdalena avrebbe avuto circa dodici anni quando Vermeer realizzò l’opera nel 1667 o 1668, un’età che spiegherebbe quella particolare combinazione di innocenza e intensità che cattura lo spettatore.

La dimensione spirituale nascosta nell’opera

Ma la teoria di Graham-Dixon va ben oltre la semplice identificazione anagrafica. Lo storico ha scoperto che la dimora dei van Ruijven si trovava di fronte a una chiesa dei Remonstrants, un movimento evangelico protestante i cui seguaci cercavano di emulare le vite degli apostoli e delle seguaci di Cristo. Questa appartenenza religiosa diventa la chiave interpretativa dell’intera opera.

La famiglia van Ruijven era profondamente coinvolta in questa corrente religiosa, e Maria de Knuijt partecipava anche ai Collegianti, un gruppo radicale che rifiutava l’autorità ecclesiastica in favore di discussioni religiose aperte. I Collegianti si distinguevano per le loro “colleges” – assemblee dove i membri si riunivano per studiare la Bibbia senza la supervisione di un clero formale, praticando una forma di libertà religiosa allora rivoluzionaria.

In questo contesto spirituale, ogni dettaglio del dipinto acquisisce un significato profondo. Il nome stesso della giovane – Magdalena – non sarebbe casuale: Maria Maddalena era una figura particolarmente venerata dai Remonstrants, e la ragazza rappresentava la seconda donna della famiglia a portare questo nome. L’enorme perla dell’orecchino fungerebbe da metafora dell’anima, mentre l’espressione della ragazza catturerebbe il momento biblico in cui Maria Maddalena riconosce Cristo risorto.

Il linguaggio simbolico di Vermeer

L’interpretazione religiosa trova ulteriore conferma nell’analisi di altre opere. Una delle prime commissioni che Maria de Knuijt affidò a Vermeer fu “A Maid Asleep” del 1657, anch’essa ispirata alla storia di Maria Maddalena. Il dipinto mostra una serva con le guance arrossate dal vino, e i raggi X hanno rivelato che originariamente un uomo indugiava sulla porta: un chiaro riferimento alla peccatrice redenta del Vangelo.

Graham-Dixon suggerisce che il ritratto potrebbe essere stato realizzato per commemorare il battesimo di Magdalena presso la sede dei Collegianti a Rijnsburg, un rito di passaggio attraverso il quale la giovane avrebbe incarnato la fede della sua omonima biblica. Il dipinto non sarebbe quindi un semplice ritratto, ma un’opera carica di significato spirituale, destinata a celebrare un momento fondamentale nella vita religiosa della famiglia.

Quando l’arte incontra la fede radicale

La scelta di Vermeer di lavorare quasi esclusivamente per i van Ruijven appare ora sotto una luce diversa. Vermeer stesso era cresciuto come Remonstrant e partecipava alle riunioni dei Collegianti, condividendo quindi le convinzioni religiose dei suoi mecenati. Questo legame non era solo professionale, ma profondamente ideologico.

I Remonstrants erano un movimento protestante che si era separato dalla Chiesa Riformata Olandese all’inizio del XVII secolo, seguendo le idee di Jacobus Arminius e opponendosi al calvinismo rigido sulla questione della predestinazione. Condannati dal sinodo di Dordrecht del 1618-1619, rimasero una piccola minoranza nei Paesi Bassi, ma una minoranza influente, soprattutto negli ambienti culturali.

La presenza femminile in questi movimenti era straordinariamente rilevante per l’epoca. Tra i Collegianti si trovavano donne in numero significativo, un fatto insolito per il XVII secolo, e questo potrebbe spiegare perché Vermeer abbia dedicato tanta attenzione ai soggetti femminili nelle sue opere, rappresentandoli non come semplici figure decorative ma come protagoniste di narrazioni interiori complesse.

Il dibattito continua

Non tutti gli esperti concordano con la teoria di Graham-Dixon. Ruth Millington, autrice di “Muse: Uncovering the Hidden Figures Behind Art History’s Masterpieces”, sostiene che il ritratto potrebbe non raffigurare una singola persona reale, sottolineando che l’arte non è sempre biografica. Millington evidenzia che questa ipotesi circola da tempo e che esperti come la dottoressa Judith Noorman l’avevano già avanzata in passato.

Il dipinto rimane tecnicamente classificato come “tronie” – uno studio di carattere olandese del XVII secolo con caratteristiche esagerate, definito nel catalogo d’asta del 1696 come “in abiti antichi, straordinariamente artistico”. Questa classificazione lascia spazio all’ambiguità: le “tronie” erano opere che ritraevano tipi o caratteri immaginari piuttosto che persone specifiche.

Quando il mistero alimenta l’immortalità

La possibilità che il mistero venga risolto solleva interrogativi profondi sul rapporto tra l’arte e il suo pubblico. L’ambiguità ha reso questo dipinto irresistibile per secoli: ogni spettatore ha potuto proiettare le proprie interpretazioni su quello sguardo che sembra seguirci, su quelle labbra socchiuse come sul punto di parlare, su quel turbante esotico che trasforma una ragazza olandese in una figura quasi orientale.

La forza di quest’opera risiede nella sua capacità di evocare domande universali sull’identità, sulla giovinezza, sul mistero della persona umana. Vermeer ha dimostrato la sua maestria nella gestione della luce: la morbidezza del volto della ragazza, i riflessi sulle labbra umide e, naturalmente, lo splendore della perla. La perla stessa è dipinta con sole due pennellate: un punto luminoso in alto a sinistra e il morbido riflesso del colletto bianco sulla parte inferiore.

Se l’interpretazione di Graham-Dixon venisse confermata, non impoverirebbe l’opera ma la arricchirebbe di nuovi strati di significato. Sapere che quella ragazza potrebbe essere Magdalena van Ruijven, ritratta in un momento cruciale del suo cammino spirituale, non cancella la sua forza iconica. Semplicemente, aggiunge una narrazione ulteriore a quelle che già si sovrappongono su questa tela immortale.

L’eternità di uno sguardo

Che si tratti di un’allegoria religiosa, del ritratto di una giovane mecenate, o di una figura ideale creata dall’immaginazione di Vermeer, la “Ragazza con l’orecchino di perla” continuerà a esercitare il suo fascino magnetico. Ogni nuova interpretazione non fa che confermare la genialità di un artista che, con pochi pigmenti e pennellate sapienti, è riuscito a catturare qualcosa di ineffabile: quel momento sospeso tra il silenzio e la parola, tra il riconoscimento e lo stupore, tra l’umano e il divino.

Il dipinto venne acquistato in pessime condizioni nel 1881 per soli due fiorini e trenta centesimi, e dopo un’accurata opera di restauro nel 1994, è tornato a rivelare il suo impatto tridimensionale magistrale, la vivida tavolozza cromatica e le complessità dei toni della carne. Una storia di riscoperta che rispecchia quella di Vermeer stesso, quasi dimenticato tra Settecento e Ottocento, e poi elevato a maestro assoluto della pittura olandese nel secolo scorso.

Lo sguardo di quella ragazza continuerà a interrogarci, qualunque sia il suo nome. Perché l’arte vera non ha bisogno di risposte definitive: si nutre delle domande che suscita, delle emozioni che genera, del dialogo silenzioso che instaura con chi la contempla. E in questo dialogo, la “Ragazza con l’orecchino di perla” rimarrà eternamente giovane, eternamente misteriosa, eternamente presente.