Rich Silverstein non è un pubblicitario qualunque. L’uomo che ha creato campagne iconiche come “Got Milk?” e ha contribuito a definire l’immaginario di Nike con “Dream Crazy” ha sempre avuto un talento particolare: trasformare concetti complessi in narrazioni che entrano nell’inconscio collettivo. Ma il suo ultimo progetto va oltre la pubblicità, oltre il marketing, per addentrarsi in un territorio dove l’arte incontra l’intelligenza artificiale e la storia si fonde con l’assurdo.

Un musical sulla crisi dei missili di Cuba

Immaginate di entrare in una sala dove le pareti vibrano di immagini storiche, dove le voci di Kennedy e Krusciov si intrecciano in melodie rock, dove la tensione nucleare degli anni Sessanta diventa improvvisamente una coreografia da Broadway. Questo è “13 Days: The Musical (Or The Most Dangerous Moment in Human History)”, un’installazione immersiva che ha aperto i battenti al Cube dell’ICA di San Francisco il 16 ottobre 2024, esattamente 63 anni dopo l’inizio della crisi dei missili cubani.

Il progetto è audace nella sua premessa: cosa succede quando si affida a un algoritmo il compito di riscrivere uno dei momenti più terrificanti della storia contemporanea come se fosse uno spettacolo di Broadway? Silverstein ha utilizzato strumenti di intelligenza artificiale come Suno, OpenAI e Google Veo3 per creare un’orchestra digitale che accompagna 89 immagini su larga scala, narrazioni coinvolgenti e quattro canzoni originali che costituiscono l’ossatura di quello che diventerà un musical completo di 35 brani.

L’assurdo come strumento di verità

“È un’idea assurda, ed è esattamente per questo che dovevo realizzarla”, ha dichiarato Silverstein. E in effetti, l’assurdità è il filo conduttore dell’intera esperienza. Una scena mostra Kennedy che informa suo fratello Bobby della presenza dei missili sovietici a Cuba, mentre un ritornello rock scandisce: “Merda, merda, merda, quei figli di puttana di russi.” Un’altra presenta Krusciov che canta di voler “infilare un riccio nei pantaloni dello Zio Sam.” Il musical si chiude con Fidel Castro che promette: “Li sopravviverò tutti.”

Ma dietro le risate si nasconde un disagio palpabile. Martin Strickland, curatore dell’installazione, lo esprime con chiarezza: “Ridi, ma ti senti anche a disagio perché non è poi così lontano da come il mondo funziona ancora oggi.” Ed è proprio questa dualità che rende il progetto così potente: la capacità di farci ridere della follia umana mentre ci ricorda quanto siamo ancora vicini all’autodistruzione.

L’intelligenza artificiale come collaboratore creativo

Ciò che distingue questo progetto da altre sperimentazioni artistiche con l’IA è l’approccio etico di Silverstein. Per lui, l’intelligenza artificiale non è né un sostituto della creatività umana né una tecnologia da demonizzare, ma uno strumento intermedio, “un metronomo” come lo definisce lui stesso. “Tiene il tempo, ma non compone la canzone. Mi aiuta a visualizzare scene, testare testi e immaginare toni. Ma l’intenzione, quella strana intenzione umana… quella è la parte che nessun algoritmo comprende.”

Questa collaborazione uomo-macchina solleva questioni fondamentali sul futuro della creatività nell’era dell’intelligenza artificiale. Silverstein non usa l’IA come scorciatoia, ma come blocco per schizzi, un modo per esplorare rapidamente possibilità narrative prima di infondere in esse quella dimensione umana, caotica e imprevedibile che nessun algoritmo può replicare. Il risultato è una tensione creativa tra precisione meccanica e caos umano che rispecchia perfettamente il tema centrale dell’opera: la follia della deterrenza nucleare.

Storia e satira in un equilibrio precario

L’interesse di Silverstein per gli eventi mondiali come materiale creativo non è nuovo. In passato ha trasformato politica, fede e mortalità in commenti visivi provocatori. Ma “13 Days” arriva in un momento particolarmente significativo, quando le tensioni nucleari tornano a dominare i titoli dei giornali e l’etica tecnologica è al centro del dibattito pubblico.

L’installazione fonde filmati d’archivio in bianco e nero con storytelling musicale immaginario, evidenziando quanto sottile sia il confine tra spettacolo e sopravvivenza. Come nota Strickland, “La storia spesso suona come satira. Leader mondiali che giocano a chi resiste di più con conseguenze catastrofiche: è teatro, che lo ammettiamo o no.”

Silverstein vuole che il pubblico esca sia divertito che inquieto. “Per quanto pazzo e assurdo possa sembrare tutto questo, niente è stato inventato,” afferma. “Dimostra ancora una volta che la realtà supera la fantasia.” Ed è forse questo il messaggio più potente del progetto: nel 1962, il mondo è davvero arrivato sull’orlo dell’annientamento nucleare per una combinazione di ego, malintesi e orgoglio nazionale. Il fatto che questa verità storica possa essere raccontata attraverso numeri musicali rock non la rende meno terrificante, anzi, ne amplifica l’impatto emotivo.

Il futuro della narrazione storica

Mentre l’installazione prosegue fino al 16 novembre, “13 Days” pone interrogativi che vanno ben oltre i confini della sala espositiva. Può l’intelligenza artificiale aiutarci a comprendere meglio la storia rendendola più accessibile e coinvolgente? Quali sono i limiti etici dell’uso dell’IA nella creazione artistica? E soprattutto: in un mondo dove le tensioni geopolitiche continuano a rispecchiare quelle della Guerra Fredda, cosa possiamo imparare dalla satira di quegli eventi?

Il progetto di Silverstein suggerisce che l’arte, anche quando mediata dalla tecnologia, mantiene il suo potere unico di farci vedere la realtà da prospettive inaspettate. Trasformare la crisi dei missili cubani in un musical non banalizza quegli eventi; al contrario, li rende più visceralmente comprensibili, più umani nella loro assurdità.

In un’epoca in cui l’intelligenza artificiale sta rapidamente trasformando ogni aspetto della nostra vita, “13 Days” offre un modello di come questa tecnologia possa amplificare piuttosto che sostituire la creatività umana. Non si tratta di lasciare che le macchine creino al nostro posto, ma di utilizzarle per esplorare territori narrativi che altrimenti rimarrebbero inesplorati, per dare forma a intuizioni che altrimenti resterebbero vaghe, per costruire ponti tra passato e presente che ci aiutino a comprendere meglio entrambi.