Venezia, inizio Novecento. Una ragazza di buona famiglia si iscrive all’Accademia di Belle Arti, ma le viene negato l’accesso ai corsi di pittura: il nudo non è considerato decoroso per una signorina. Così studia decorazione, un campo ritenuto più adatto alle donne. Da questo apparente ostacolo nascerà una delle voci più originali e coerenti dell’arte italiana del secolo.

Il linguaggio del segno

Dal 16 ottobre 2025 al 7 gennaio 2026, Palazzo Citterio a Milano ospita la prima grande retrospettiva italiana dedicata a Bice Lazzari, artista veneziana che ha attraversato l’intero Novecento costruendo un alfabeto visivo inconfondibile. Oltre 110 opere provenienti da musei e collezioni internazionali – dal Guggenheim di New York alla Galleria Nazionale di Roma, da Yale alla Phillips Collection di Washington – raccontano quarant’anni di ricerca ostinata e silenziosa.

Il rosso era il suo colore prediletto, quello che accendeva le linee tracciate su fondi monocromi. Un rosso che illuminava anche i maglioni di lana che la sorella minore le lavorava ai ferri. Quella sorella sposerà Carlo Scarpa, il grande architetto e designer, legando la famiglia Lazzari a uno dei maestri del gusto italiano del secolo.

Dalla laguna all’astrazione pura

Gli esordi veneziani negli anni Venti mostrano paesaggi lagunari immersi in una luce impressionista. Ma già nel 1925, mentre i suoi contemporanei sviluppano l’idea di figura e classicismo, lei presenta a Ca’ Pesaro un’opera intitolata “Astrazione di una linea”. È una voce fuori dal coro, un’anticipazione audace.

Dalla seconda metà degli anni Venti inizia a lavorare al telaio, producendo stoffe, sciarpe, borse, tappeti annodati a mano. Collabora con Gio Ponti, partecipa alle Triennali di Milano. È un terreno considerato più idoneo a un’artista donna, ma lei lo trasforma in laboratorio di sperimentazione astratta, portando nelle arti applicate la stessa ricerca formale che altri riservavano alla pittura da cavalletto.

Il ricominciamento necessario

Nel 1949, dopo anni di compromessi tra arte applicata e desiderio di pittura pura, scrive: “Ricominciai decisa a rinunciare a tutto. Mi misi sotto come una dannata per recuperare il tempo perduto”. È la svolta definitiva. Negli anni Cinquanta aderisce all’Informale, abbandona i colori a olio per colle, sabbie, tempere, acrilici. Partecipa alla Biennale di Venezia, alla Quadriennale romana, espone nelle gallerie che contano.

Poi, nel 1964, compie un gesto ancora più radicale: riparte da zero. Rinuncia alla materia e al colore per esprimersi con mezzi semplicissimi, spesso solo linee tracciate con la grafite su fondo monocromo. “Ricominciai dalle aste come i bambini, cioè feci atto di umiltà”, confessa. È questa fase della sua produzione – quella degli anni Sessanta e Settanta – a consolidare la sua posizione di protagonista, un linguaggio ridotto all’essenziale che dialoga con il minimalismo internazionale pur mantenendo una voce personalissima.

L’eredità di un alfabeto visivo

L’Archivio Bice Lazzari ha catalogato più di tremila opere, un corpus sterminato che documenta una ricerca coerente e inesorabile. Eppure, come donna, le era stato sconsigliato di seguire una carriera artistica, e per decenni è rimasta nell’ombra, conosciuta solo da critici e collezionisti attenti.

Le mostre recenti – dalla Phillips Collection di Washington nel 2021 all’Estorick Collection di Londra nel 2022, fino alla partecipazione a “Women in Abstraction” al Centre Pompidou – stanno finalmente restituendo a Lazzari il posto che merita nella storia dell’arte. La retrospettiva milanese rappresenta un tassello fondamentale di questo riconoscimento: un viaggio attraverso l’evoluzione di un linguaggio che ha saputo confrontarsi con il proprio tempo senza mai cedere alle mode, costruendo invece un universo parallelo fatto di rigore e poesia.

Il silenzio eloquente

Bice Lazzari muore a Roma nel novembre 1981, pochi mesi dopo il marito. È sepolta a Quero, nel monumento funebre progettato dal cognato Carlo Scarpa, dove la famiglia trascorreva le vacanze estive. Un luogo di silenzio e contemplazione, come le sue ultime tele: campi monocromi attraversati da linee essenziali, dialoghi sottili tra spazio e segno, tra vuoto e presenza.

La mostra di Palazzo Citterio, curata da Renato Miracco con il sostegno di Gucci e allestita da Francesco Librizzi Studio, permette di ricostruire l’intero arco di una carriera che ha attraversato le avanguardie storiche, l’Informale, lo Spazialismo, il minimalismo, senza mai appartenere completamente a nessuna di queste correnti. Lazzari ha costruito il suo linguaggio in solitudine, con una coerenza che oggi appare profetica: un’artista che ha scelto di non scegliere tra decorazione e pittura, tra femminile e universale, tra astrazione geometrica e libertà gestuale, tenendo insieme tutti questi poli in un equilibrio personale e irripetibile.