L’autunno italiano si accende di cultura visiva, trasformando musei e palazzi storici in scenari dove la storia della fotografia e dell’arte contemporanea si intrecciano con il presente. Da Torino a Milano, da piccoli borghi emiliani alle città venete, le mostre di questa stagione offrono un viaggio attraverso le immagini che hanno definito il Novecento e quelle che continuano a interrogare il nostro tempo.

Non si tratta semplicemente di esposizioni: sono narrazioni che attraversano decenni, conflitti, rivoluzioni estetiche e sociali. Sono storie di artisti che hanno sfidato i confini del proprio medium, trasformando la fotografia da semplice documento in linguaggio poetico, la scultura in specchio della società dei consumi, la street art in manifesto politico. E sono occasioni per riflettere su come le immagini plasmino la nostra percezione del mondo.

Lee Miller: quando la bellezza incontra l’orrore

A Torino, Camera – Centro Italiano per la Fotografia dedica una retrospettiva monumentale a Lee Miller, figura che incarna tutte le contraddizioni e le potenzialità del Novecento. La mostra, visitabile fino al primo febbraio 2026, presenta oltre 160 fotografie provenienti dai Lee Miller Archives, molte delle quali raramente esposte al pubblico italiano.

Lee Miller è stata modella per Vogue, musa di Man Ray, fotografa surrealista, reporter di guerra. La sua vita sembra condensare in un’unica esistenza le molteplici vite possibili di una donna del XX secolo che rifiutò ogni costrizione. Nata nel 1907 a Poughkeepsie, nello Stato di New York, Miller arrivò a Parigi alla fine degli anni Venti con un obiettivo preciso: diventare fotografa in un’epoca in cui le donne faticavano a essere prese sul serio dietro l’obiettivo.

L’incontro con Man Ray fu decisivo. Divenne sua assistente, poi amante, poi collaboratrice paritaria. Insieme svilupparono la tecnica della solarizzazione, quel processo che conferisce alle immagini un’aura luminosa quasi soprannaturale, trasformando il ritratto fotografico in visione onirica. Ma Miller non si limitò a essere la compagna di un grande artista: frequentò Picasso, Ernst, Éluard, divenne amica di Eileen Agar e Leonora Carrington, si immerse nel movimento surrealista non come decorazione ma come protagonista.

Le sue fotografie egiziane, realizzate durante gli anni trascorsi al Cairo dopo il matrimonio con l’uomo d’affari Aziz Eloui Bey, mostrano un’altra faccia del suo talento: paesaggi enigmatici dove le geometrie delle dune e delle architetture antiche si fondono in composizioni che sembrano anticipare l’astrazione fotografica del dopoguerra.

Ma è con la Seconda Guerra Mondiale che Lee Miller realizza il suo lavoro più potente e disturbante. Come corrispondente accreditata per Vogue, documentò la Londra sotto i bombardamenti tedeschi, creando immagini che univano la raffinatezza estetica della moda con la durezza della vita quotidiana sotto attacco. Poi venne la liberazione dell’Europa: Miller fotografò i campi di concentramento di Buchenwald e Dachau, il suicidio degli ufficiali nazisti, Monaco e Norimberga in macerie.

Una delle sue fotografie più iconiche la ritrae nella vasca da bagno di Hitler, nell’appartamento del Führer a Monaco, appena conquistato dalle truppe alleate. I suoi stivali sporchi di fango sono posati sul tappetino bianco, il ritratto di Hitler osserva la scena. È un’immagine di sfida, vendetta simbolica, profanazione deliberata del mito nazista. Ma quelle fotografie segnarono Miller in modo indelebile: dopo la guerra si ritirò nella campagna inglese, smise quasi completamente di fotografare, come se l’obiettivo fosse diventato troppo pesante da sostenere.

Man Ray: il surrealismo come rivoluzione dello sguardo

Se Lee Miller rappresenta l’incontro tra eleganza e testimonianza, il suo mentore e amante Man Ray incarna la pura sperimentazione formale. A Milano, Palazzo Reale ospita fino all’11 gennaio 2026 una grande retrospettiva dedicata all’artista che più di ogni altro ha ridefinito i confini tra pittura, fotografia e cinema.

Man Ray – pseudonimo di Emmanuel Radnitsky – nacque nel 1890 a Philadelphia da una famiglia ebrea di origine russa. Il suo nome d’arte, che fonde “man” (uomo) e “ray” (raggio di luce), è già un programma estetico: l’artista come manipolatore di luce, creatore di realtà alternative attraverso l’immagine.

Il trasferimento a Parigi nel 1921 fu l’inizio della sua vera avventura artistica. Nella capitale francese incontrò André Breton e il gruppo surrealista, Louis Aragon, Philippe Soupault. Ma soprattutto incontrò Alice Prin, meglio nota come Kiki de Montparnasse, cantante e modella che divenne la sua compagna e la protagonista di alcune delle fotografie più celebri del Novecento.

Le Violon d’Ingres è forse l’immagine che meglio riassume il genio di Man Ray: il corpo femminile di Kiki, ripreso da dietro, con le effe del violino dipinte sulla schiena, trasforma la donna in strumento musicale, oggetto di desiderio e opera d’arte insieme. È un’immagine che oggi potrebbe suscitare critiche per l’oggettificazione del corpo femminile, ma che nel contesto surrealista rappresentava una liberazione dell’immaginazione erotica, un gioco sofisticato tra arte alta e desiderio.

La rayografia, tecnica che Man Ray sviluppò nei primi anni Venti, rappresentò una rottura radicale con la fotografia tradizionale. Senza macchina fotografica, posizionando oggetti direttamente sulla carta fotosensibile, Man Ray creava composizioni astratte dove gli oggetti quotidiani diventavano forme pure, ombre misteriose, presenze spettrali. Era la fotografia che si liberava dall’obbligo della rappresentazione per diventare pura creazione visiva.

La mostra milanese presenta circa trecento opere tra fotografie vintage, disegni, litografie e oggetti, permettendo di seguire l’intera parabola creativa dell’artista. Ci sono i ritratti degli amici artisti – Duchamp, Dalí, Breton – che Man Ray ritraeva con la stessa attenzione formale che riservava alle sue modelle. Ci sono le fotografie di moda realizzate per Paul Poiret, Elsa Schiaparelli e Coco Chanel, dove l’eleganza parigina si fonde con l’ironia surrealista. E ci sono le solarizzazioni, quelle immagini dall’aura luminosa che sembrano appartenere a una dimensione parallela.

L’arte contemporanea tra provocazione e riflessione

Se la fotografia del Novecento ha documentato e trasfigurato il secolo breve, l’arte contemporanea continua a interrogare il presente con strumenti che vanno dalla scultura monumentale alla street art.

A Fiorenzuola d’Arda, piccolo comune in provincia di Piacenza, Palazzo Bertamini Lucca ospita fino al 6 aprile 2026 una mostra dedicata a Jeff Koons, l’artista americano che ha fatto della cultura pop e del kitsch i pilastri della sua ricerca estetica. Le sue sculture a forma di palloncino – il celebre Balloon Dog, il Balloon Rabbit, il Balloon Swan – sono icone dell’arte contemporanea riconoscibili quanto la Gioconda o la Notte stellata.

Koons lavora sulla seduzione visiva e sul paradosso. Le sue sculture sembrano palloncini gonfiabili, leggeri e festosi come quelli delle feste per bambini, ma sono realizzate in acciaio inossidabile lucidato a specchio, pesanti diverse tonnellate, costose quanto opere rinascimentali. La superficie specchiante riflette lo spettatore e l’ambiente circostante, trasformando l’opera in uno specchio letterale della società contemporanea: siamo noi, con i nostri desideri e le nostre contraddizioni, a completare il lavoro di Koons.

La serie Gazing Ball, presente in mostra, porta questa riflessione a un livello ulteriore. Koons riproduce fedelmente capolavori della storia dell’arte – dall’Olympia di Manet a opere dell’arte classica – e al centro di ciascuna riproduzione posiziona una sfera di vetro blu riflettente. È un dialogo tra passato e presente, tra alta cultura e cultura di massa, che costringe lo spettatore a interrogarsi sul valore dell’arte nell’epoca della riproducibilità tecnica.

Steve McCurry e l’umanità dietro l’obiettivo

A Parma, dal 22 novembre 2025 al 12 aprile 2026, Palazzo Pigorini celebra Steve McCurry, uno dei fotografi più amati e riconoscibili del nostro tempo. McCurry è famoso soprattutto per il ritratto della ragazza afghana dagli occhi verdi, pubblicato su National Geographic nel 1985 e diventato una delle fotografie più iconiche del XX secolo.

Ma McCurry è molto più di quell’immagine. Per oltre quarant’anni ha viaggiato attraverso Asia, Africa, America Latina, documentando conflitti, tradizioni, volti. Le sue fotografie hanno una qualità quasi pittorica: i colori sono saturi, le composizioni bilanciate, ogni elemento sembra posizionato con cura millimetrica. Eppure non c’è nulla di artificioso nel suo lavoro: McCurry aspetta, osserva, si immerge nei luoghi che fotografa finché la scena non si rivela.

«Ho imparato a essere paziente», ha dichiarato. «Se aspetti abbastanza, le persone dimenticano la macchina fotografica e la loro anima comincia a librarsi verso di te». È questa capacità di catturare l’essenza umana che rende il lavoro di McCurry così potente. I suoi soggetti non sono mai ridotti a stereotipi esotici o vittime passive: sono individui con dignità, storie, emozioni complesse.

La mostra parmense, curata da Biba Giacchetti, non segue un criterio geografico o cronologico, ma accosta le immagini per affinità emotive e tematiche. Un volto afghano dialoga con uno birmano, un paesaggio indiano risuona con uno cubano. È un modo di guardare il mondo che sottolinea le connessioni piuttosto che le divisioni, l’universalità dell’esperienza umana al di là delle differenze culturali.

Banksy e la street art: l’arte come atto politico

A Conegliano, in Veneto, Palazzo Sarcinelli dedica dal 15 ottobre 2025 al 22 marzo 2026 un’ampia esposizione a Banksy e alla street art contemporanea. Oltre ottanta opere esplorano i temi centrali dell’arte urbana: ribellione, pacifismo, critica al consumismo, lotta contro i sistemi di potere.

Banksy rimane una delle figure più enigmatiche dell’arte contemporanea. Nessuno conosce la sua vera identità, ma le sue opere – apparse su muri di Londra, New York, Betlemme, Venezia – sono riconosciute in tutto il mondo. La sua forza sta nella capacità di sintetizzare messaggi politici complessi in immagini immediate, comprensibili a chiunque passi per strada.

La mostra presenta Kids on Guns, un’opera realizzata con spray su tela che mostra due bambini stilizzati – un maschio con un orsacchiotto, una femmina con un palloncino rosso a forma di cuore – in piedi sopra una montagna di armi. È un’immagine di contrasto violento tra innocenza e distruzione, dove il gesto consolatorio del bambino verso la bambina diventa simbolo di speranza in mezzo all’orrore.

Nel 2013, durante la sua “residenza” non autorizzata Better Out Than In a New York, Banksy vendette alcune edizioni di Kids on Guns in un chiosco improvvisato a Central Park per soli 60 dollari. La maggior parte dei passanti ignorò il banchetto, non riconoscendo il valore delle opere. Fu una provocazione geniale sul mercato dell’arte: le stesse opere che sarebbero state vendute per centinaia di migliaia di dollari nelle gallerie erano disponibili per pochi spiccioli, ma senza il contesto “giusto” nessuno le voleva.

Accanto a Banksy, la mostra presenta Keith Haring, con i suoi omini colorati e il suo attivismo contro l’AIDS e l’ingiustizia sociale, Shepard Fairey (noto come Obey), famoso per il poster “Hope” di Barack Obama, e artisti contemporanei come TvBoy, Mr. Brainwash e Mr. Savethewall. Tutti condividono l’idea che l’arte debba uscire dai musei per parlare direttamente alla gente, trasformando lo spazio urbano in galleria democratica.

Il dialogo tra passato e presente

Queste mostre autunnali non sono eventi isolati, ma tessere di un mosaico più ampio. Raccontano come l’arte visiva – dalla fotografia alla scultura, dalla pittura alla street art – abbia attraversato il Novecento e continui a evolversi nel XXI secolo, mantenendo intatta la sua capacità di documentare, provocare, emozionare, far riflettere.

Lee Miller e Man Ray ci ricordano che la fotografia non è mai stata semplice riproduzione della realtà, ma sempre interpretazione, manipolazione, creazione. Steve McCurry dimostra che anche nell’epoca dell’immagine istantanea e dei social media, una fotografia pensata e attesa può avere una forza che nessun selfie potrà mai raggiungere. Jeff Koons ci costringe a interrogarci sul valore dell’arte quando bellezza e kitsch si fondono. Banksy ci ricorda che l’arte può ancora essere sovversiva, politica, pericolosa.

Visitare queste mostre significa attraversare un secolo di immagini che hanno plasmato il nostro modo di vedere il mondo. Significa scoprire come artisti di epoche e sensibilità diverse abbiano usato medium diversi per esprimere la stessa urgenza: catturare qualcosa di essenziale dell’esperienza umana, renderlo visibile, condividerlo. Significa riconoscere che in un’epoca dominata dalle immagini effimere dei social media, ci sono ancora immagini che resistono, che durano, che continuano a parlarci decenni dopo essere state create.

L’autunno italiano offre questa possibilità: rallentare, guardare con attenzione, lasciarsi interrogare dalle immagini. È un invito a riscoprire il potere dello sguardo in un mondo che ci ha abituato a vedere tutto troppo in fretta.