Mio padre non sapeva che cosa sarebbe successo. … Io invece l’ho sempre temuto. Per questo corro. Non ho mai smesso, da quando sono nato. … Ho imparato a correre prima ancora di camminare. … Mio padre ha smesso di ridere dopo gli incendi. Prima era un uomo divertente.

Josko sembra una foglia inquieta ai piedi dell’albero. La foglia che aspetta il colpo di vento che la spezzerà via.

Tornavano ad essere ragazzi e ragazze, ma non del tutto. Nessuno di noi è tornato a essere quello che era prima. … Eppure, se avessimo saputo quel che stava per accadere, non ci saremmo lamentati.

Niente liste con i nostri nomi, niente schede o elenchi. Solo così potevamo scappare. …. Ci ha aiutati anche se sapeva che nulla avrebbe ricevuto in cambio. Il suo è un bilancio in perdita.

Markus Silberschatz detto Schoky, io spero con tutto il cuore che il tuo nome non sia mai dimenticato.

Ma non pensare è difficile. Non basta. I ricordi tornano anche se non li cerchi, ti prendono alle spalle e quelli sono giorni che non passano.

Ti dirò tutta la verità, lo giuro. Ma con le parole che ogni verità merita. Se vuoi, lo posso fare.

Zio Hermann mai avrebbe consentito alle sue parole di procurare dolore. Penso a lui, alla sofferenza di cui si è fatto carico nel tenere in vita chi non c’era più.

Ma io non lo so più che vuol dire essere liberi. Non sono libero di tornare. E non sono libero neanche di andare.

Ogni addio è una ferita, ogni partenza un taglio. Un pezzo di noi che non c’è più.

Perché è così che funziona: quando si corre si corre da soli. E se si corre insieme ad altri, non ti volti a vedere chi è rimasto indietro. Chi rimane indietro è un vantaggio. Distrae le belve. Loro si fermano a divorarlo e tu corri, corri e vai lontano. Più ne cadono, più sei salvo.

Lavorano di giorno e di notte. Perché fare quaranta cappotti, quaranta divise uguali, è un lavoro da mesi. E mesi non ce ne sono. I mesi sono per i tempi normali.

Quando le sarte arrivano alla Villa, appoggiano la pila di cappotti sul tavolo. «Ecco» dice una. «Sono tutti.» ……. poi una si accorge che manca un bottone.

 

La prima cosa che ho imparato leggendo questo libro, altrimenti a che servono i libri se non ci insegnano qualcosa, è il nome di un paese che credevo fosse inventato: Nonantola.

La seconda cosa che ho imparato, è che quando il dolore è condiviso con gli altri può far si che diventi meno “infetto”.

Natan, attraverso le sue parole ci condurrà a percorrere un periodo molto triste e devastante della nostra storia recente, ma allo stesso tempo ci insegnerà che il buono, in ogni situazione c’è sempre. Che non necessariamente bisogna dare solo beni materiali per salvare qualcuno a volte basta insegnargli un mestiere, organizzare una partita di pallone per distrarlo dai pensieri tristi, portarlo a pesca, o un sorriso, un abbraccio, e che un bottone in più o in meno può fare la differenza per mettere qualcuno in salvo. Sono le piccole differenze, quelle a cui di solito diamo poca importanza, che mettono in allarme i soldati.

Sono stati scritti molti libri sulla Shoà, ma le parole non sono mai troppe, i libri non sono mai troppi, per impedirci di dimenticare, e questo libro con la sua semplicità è in grado di mantenere vivo quel ricordo affinché “cose così” non accadano mai più. Un libro semplice e meraviglioso. Un libro che apre un varco nel cuore e ti porta a dar fiducia al prossimo.

Ho pianto, ho pianto tanto leggendolo, ma non per tristezza, il più delle volte ho pianto di commozione. Ho pianto quando un intero paese si è stretto intorno al gruppo di ragazzi per aiutarli a mettersi in salvo, e non è stato l’unico momento.

40 cappotti e un bottone di Ivan Sciapeconi, #Mai abbassare la guardia il male è sempre in agguato, non sai da dove può arrivare o dove finirà

40 cappotti e un bottone
di Ivan Sciapeconi
Piemme 2022 (2070 pp.)