Fuoriscena (2013) è un documentario che nasce dalla collaborazione di due registi, Massimo Donati e Alessandro Leone. Il titolo in sè racchiude l’anima del racconto, ovvero la vita “spiata” di ballerini e cantanti, allievi di una delle scuole d’arte più importanti del mondo, La Scala di Milano. Non ci troviamo, però, dinanzi a un’impostazione chiusa, anzi, la vita in cui siamo elegantemente accompagnati, quasi a passo di danza, è anche quella di tutti coloro che vivono dietro le quinte, le anime appunto del Fuoriscena. Ed è così, con delicatezza, che vediamo avvicendarsi il lavoro di sarti, scenografi, costumisti, artisti e inservienti, in un flusso continuo che non confonde, poiché limpido e ordinato, come il resto della narrazione, la quale mantiene una scansione temporale su più livelli. Un livello più specifico è quello delle lezioni di danza maschili alternate a quelle femminili, per poi passare ai pas de deux, fino alla prova costumi, al trucco e alla mis en scene; e un livello più ampio, che è quello di mesi, stagioni, ammissioni, lezioni, prove, spettacoli, esami, valutazioni e audizioni). Entrambi fusi in una coreografia visiva che sembra seguire i movimenti dei corpi e le vibrazioni delle voci.

Ci troviamo dinanzi a un documentario commovente nella sua discrezione ed eleganza, la macchina da presa ci regala primi piani simbolici, come volti, mani, piedi; dettagli che ci consentono di percepire l’impercettibile: l’emozione più astratta dei minuti che precedono l’entrata in scena, degli attimi che seguono un esame, una caduta o un rimprovero. Ed è così che l’immagine diventa pura fotografia, alla stregua di una cartolina o di un quadro di arte classica.

E ancora, tutto combacia cromaticamente e musicalmente: la colonna sonora si nutre, inevitabilmente, delle musiche di scena degli spettacoli stessi, alternate ai rumori e alle voci quotidiane, mentori di una spontaneità che dona al racconto la capacità di intrattenere, facendo appello alle più basilari emozioni umane. Questa spontaneità è dirompente persino nella diligenza che accompagna gli allievi nelle faccende domestiche, nei giochi d’acqua dell’estate, nelle risate della ricreazione, negli occhi vispi dei più giovani, nelle videochiamate in famiglia dall’altra parte del mondo. A questa stessa naturalezza è stato dato un volto, che fa da fil rouge del racconto: il biondo e vispo ragazzino, etoile in erba che una volta a casa si dedica alle faccende proprie di una vita di campagna, quella bergamasca.

Possiamo azzardare un vago rimando al ben più noto Billy Elliott, ma anche, per il suo carattere onirico, al più recente Lazzaro Felice (Alice Rohrwacher, 2018).

Sogno e realtà raccontano un modo che è pura passione e sacrificio, per citare le parole di un’allieva “Ci sono tante cose che vorrei fare. Qui non abbiamo neanche un giorno libero”. Il tempo è qui difatti un grande protagonista, ineluttabile eppure accogliente, quando le prime luci del palco si accendono Milano è
pace, quando le ultime si spengono, Milano veste la luce della luna.