Mi trovo davanti all’ingresso di una città scavata nella roccia, e il sole pomeridiano tinge di rosso le pareti di arenaria. Uplistsikhe, il cui nome significa “la fortezza del signore”, sorge a dieci chilometri da Gori, arroccata sul fianco del fiume Mtkvari. Camminando tra le sue strade di pietra, immagino le carovane della Via della Seta che qui trovavano riparo, i mercanti che contrattavano nelle sale decorate, le voci che riecheggiavano nei templi pagani prima che il cristianesimo trasformasse questi luoghi. Le prime tracce della presenza umana risalgono al secondo millennio avanti Cristo, mentre gli edifici più antichi ancora visibili appartengono al primo millennio avanti Cristo.

La Georgia è questo: un viaggio attraverso stratificazioni di storia che si sovrappongono come pagine di un libro mai chiuso. Qui, tra le montagne del Caucaso e le coste del Mar Nero, si estende un territorio di circa settantamila chilometri quadrati con poco meno di quattro milioni di abitanti, una terra che gli antichi greci conoscevano come Colchide, la destinazione finale di Giasone e degli Argonauti nella loro ricerca del Vello d’Oro.

Le città che parlano dalla pietra

Nel sud della Georgia, sul fianco del monte Erusheti, si apre Vardzia, un monastero rupestre costruito per ordine della regina Tamara nel 1185. Salgo le scale ripide scavate nella roccia vulcanica, attraverso corridoi dove l’eco dei miei passi sembra dialogare con i secoli. La città nelle grotte appare come una parete rocciosa verticale punteggiata da numerosissime aperture: sono gli insediamenti rupestri ai quali si accede attraverso scale intagliate nelle rocce, cunicoli e strette vie che permettono di visitare circa quattrocento stanze, tredici chiese e venticinque depositi e cantine.

L’ingegneria idraulica di Vardzia è straordinaria: un acquedotto ipogeo di tre chilometri rifornisce ancora oggi le cisterne interne portando acqua potabile. Nelle cantine si conservano centinaia di qvevri, i grandi vasi di argilla dove i georgiani producono vino da millenni. Concepita inizialmente dal re Giorgio III tra il 1156 e il 1184, l’idea era quella di creare un luogo dove fino a cinquantamila persone potessero rifugiarsi in caso di incursioni nemiche.

La regina Tamara, figura leggendaria della Georgia medievale, trasformò questo rifugio militare in un fiorente centro spirituale. Nel 1283, però, un terremoto distrusse gran parte del complesso, asportando metà della scogliera e rivelando le strutture interne. Le invasioni successive completarono l’opera di devastazione, ma nel 1988 i monaci vi fecero ritorno e oggi sono gli unici abitanti di quella che un tempo fu una grandiosa città.

Mtskheta, dove il sacro incontra la storia

A venti chilometri dalla capitale, Mtskheta fu capitale del regno di Georgia tra il terzo secolo avanti Cristo e il quinto secolo dopo Cristo. Qui i georgiani abbracciarono il cristianesimo nel 317, diventando uno dei primi popoli al mondo a farlo, subito dopo gli armeni. Entro nella Cattedrale di Svetitskhoveli, e la luce che filtra dalle alte finestre illumina gli affreschi medievali sulle pareti di pietra dorata.

Secondo la leggenda, un ebreo georgiano di nome Elia acquistò la tunica di Cristo da un soldato romano sul Golgota e la portò qui. La sorella Sidonia morì dall’emozione stringendola al petto, e la reliquia venne sepolta con lei. Sul punto in cui fu seppellita crebbe un enorme cedro. Nel quarto secolo, quando il re Mirian III decise di costruire la prima chiesa, l’albero fu abbattuto per ricavarne sette pilastri. Il settimo, quello posto sul luogo della sepoltura, si alzò miracolosamente in aria e ridiscese solo dopo le preghiere di Santa Nino, l’evangelizzatrice della Georgia. Da quel pilastro sgorgò della mirra che guarì molti malati, e il nome stesso della cattedrale – Svetitskhoveli – significa “pilastro vivifico”.

L’attuale struttura fu costruita tra il 1010 e il 1029 dall’architetto Arsukidze, un uomo la cui abilità suscitò tanta ammirazione quanto invidia. Una leggenda racconta che il re, temendo che l’architetto potesse costruire qualcosa di ancora più bello, gli fece tagliare la mano destra. Su uno degli archi della facciata si può ancora vedere un bassorilievo che raffigura una mano che regge una squadra, con l’iscrizione: “La mano del servo di Dio Arsukidze. Ricorda”.

Il vino che ha ottomila anni

In una cantina tradizionale di Kakheti, la regione orientale della Georgia, assisto a un rituale che non è cambiato da millenni. Il proprietario apre un qvevri interrato nel pavimento, un’enorme anfora di terracotta dalla forma ovoidale. Scoperte archeologiche a Gadachrili Gora e Shulaveris Gora hanno rivelato vasi di terracotta risalenti a circa 5980 avanti Cristo, contenenti composti residui di vino e decorati con motivi di grappoli d’uva. Questa è la prova che il vino più antico conosciuto al mondo ha avuto origine proprio qui, in questa piccola nazione ai piedi del Caucaso.

Nel 2013 il metodo tradizionale di vinificazione in qvevri è stato iscritto nella lista UNESCO del Patrimonio Immateriale dell’Umanità per la sua tipicità e per il suo strettissimo legame con la cultura rurale georgiana. Si stima che circa un milione di famiglie georgiane possegga un qvevri, e centomila di queste continuino a utilizzarlo per produrre vino per uso personale.

Il processo è affascinante nella sua semplicità ancestrale. Dopo una soffice pigiatura, il mosto viene messo nei qvevri. La fermentazione alcolica inizia spontaneamente con l’azione dei lieviti indigeni. Esistono diversi metodi: il Kakheto prevede l’utilizzo nel mosto di vinacce complete di bucce, vinaccioli e raspi, producendo vini gialli, densi, tannici. Il metodo Imereti, della zona occidentale, utilizza solo una piccola parte delle vinacce, ottenendo vini più chiari e ricchi di acidità.

Tbilisi, dove Oriente e Occidente si incontrano

La capitale mi accoglie con un abbraccio caotico e affettuoso. Fondata nel quinto secolo dopo Cristo dal re Vakhtang Gorgasali, secondo la leggenda il re stava cacciando fagiani quando il suo falco ferì un uccello che cadde in un lago caldo. Le proprietà curative dell’acqua rinvigorirono l’animale morente, e il re decise di costruire una città in quel luogo, dandole il nome di Tbilisi, che significa “calda”.

Passeggio nella Città Vecchia, nel quartiere di Abanotubani, dove le terme sulfuree hanno creato l’atmosfera che ha reso famosa questa zona. Le cupole in mattoni rossi spuntano tra le case colorate dai balconi di legno intagliato, testimonianze dell’architettura tradizionale georgiana. Tbilisi è particolarmente degna di nota per la sua abbondanza di edifici e dettagli in stile art nouveau, che fiorirono dalla metà del 1890 fino alla fine del dominio russo.

Attraverso il Ponte della Pace, progettato dall’architetto italiano Michele De Lucchi, una struttura modernissima di acciaio e vetro che di notte si illumina e sembra galleggiare sul fiume Mtkvari. La sua struttura è a forma di guscio e sorge nel luogo in cui il fiume divide il centro urbano, segnando il passaggio tra il nucleo storico e la Tbilisi contemporanea.

Salgo con la funivia fino alla Fortezza di Narikala, che domina la città dal quarto secolo. Da qui, lo sguardo abbraccia l’intera valle: i tetti rossi della città vecchia, le chiese ortodosse con le loro cupole dorate, i grattacieli moderni che crescono sulla sponda opposta del fiume, i quartieri sovietici con i loro immensi edifici di cemento. Tbilisi è questa stratificazione: una mescolanza di strutture medievali, neoclassiche, beaux arts, art nouveau, staliniste e moderne.

Le torri dello Svaneti, sentinelle di pietra

Nell’estremo nord-ovest, le montagne del Caucaso si fanno ancora più imponenti. Lo Svaneti, regione remota dominata da vette che superano i quattromila metri, è abitato dagli Svani, uno dei popoli più antichi d’Europa, citato già da Strabone alla fine del primo secolo avanti Cristo come una comunità fiera e guerriera delle montagne.

Il villaggio di Mestia appare come un’immagine fuori dal tempo: tra le case di pietra si ergono torri difensive medievali, alte strutture quadrate che venivano utilizzate dalle famiglie durante le faide sanguinose e le invasioni straniere. Queste torri, che caratterizzano tutto lo Svaneti, sono diventate il simbolo della regione e testimoniano secoli di conflitti e resistenza.

La particolarità di questo popolo sta nella sua lingua, lo svan, un idioma unico, privo di forma scritta e spesso incomprensibile persino agli altri georgiani. Una cultura millenaria che oggi rischia di scomparire, con una popolazione ridotta a circa quindicimila abitanti in tutta la regione.

L’eredità dei millenni

In un ristorante tradizionale di Tbilisi, partecipo a un supra, il banchetto georgiano che è molto più di un semplice pasto: è un rituale di ospitalità, amicizia e memoria. Il tamada, il maestro di cerimonie, propone brindisi dopo brindisi, ognuno dedicato a un tema diverso: la famiglia, gli amici, gli antenati, la patria, l’amore. I bicchieri di vino si alzano continuamente, accompagnando piatti generosi: khinkali (ravioli ripieni di carne), khachapuri (focaccia ripiena di formaggio fuso), badrijani (melanzane arrotolate), lobio (fagioli speziati).

La Georgia è una terra dove l’ospitalità non è solo una parola, ma un codice d’onore tramandato di generazione in generazione. Secondo la convenzione geografica, la Georgia ricade nell’Asia occidentale, ma dal punto di vista politico, storico e culturale è spesso considerata appartenente all’area europea orientale. Questa posizione di confine ha plasmato la sua identità: crocevia di civiltà, ponte tra mondi diversi, custode di tradizioni che affondano le radici in un passato remoto.

Quando lascio questo paese, porto con me non solo fotografie e ricordi, ma la consapevolezza di aver toccato qualcosa di profondo e autentico. La Georgia non è solo una destinazione turistica: è un’esperienza che trasforma, un viaggio che continua a vivere dentro chi l’ha compiuto, come il vino che matura nei qvevri sepolti nella terra, migliorando con il tempo e conservando intatto il sapore dei millenni.