Quando le prime piogge di settembre bagnano la terra ancora calda d’estate, nei campi e lungo i sentieri si compie un miracolo silenzioso. Le erbe spontanee autunnali tornano a popolare il paesaggio con la stessa generosità della primavera, regalando a chi sa riconoscerle un patrimonio gastronomico antico quanto la nostra civiltà contadina. In questa stagione di transizione, mentre gli alberi si tingono d’oro e i ritmi della natura rallentano, la vegetazione spontanea offre ancora tesori preziosi per arricchire la tavola con sapori autentici e dimenticati.
L’autunno rappresenta infatti il secondo momento balsamico dell’anno per molte specie commestibili. Le condizioni climatiche – temperature miti, umidità crescente, ore di luce simili a quelle primaverili – ricreano l’habitat ideale perché queste piante tornino a vegetare dopo la dormienza estiva. Non si tratta di semplici erbacce, ma di vegetali ricchissimi di vitamine, sali minerali e sostanze antiossidanti, molto più concentrate rispetto alle verdure coltivate. La loro raccolta richiede conoscenza, rispetto per l’ambiente e la consapevolezza che stiamo recuperando un sapere millenario che rischia di andare perduto.
Il caccialepre: l’insalata che conquista con la sua dolcezza
Tra le protagoniste indiscusse dell’autunno mediterraneo spicca la Reichardia picroides, conosciuta nei dialetti del Sud come caccialepre, grattalingua o latticino. Questo nome curioso deriva probabilmente dall’abitudine dei cacciatori di trovare le lepri nei luoghi dove questa pianta abbonda, essendone gli animali particolarmente ghiotti. Ma è nel Salento e in Puglia che conquista il nome più evocativo: “ricuttedda”, ricottella, per il suo sapore delicato che ricorda proprio quello della ricotta fresca.
Si presenta come una pianta bassa e prostrata, con foglie oblunghe disposte a rosetta basale, dal colore verde intenso e dalla consistenza carnosa. I suoi capolini gialli brillanti sbocciano quasi tutto l’anno nelle regioni più miti, ma è in autunno che le foglie raggiungono la massima tenerezza. Appartiene alla famiglia delle Asteraceae e, come tutte le sue parenti, quando si spezza il fusto emette un lattice biancastro che ne testimonia la natura selvatica.
Dal punto di vista organolettico, il caccialepre offre un sapore dolce e latteo, privo di quella nota amara tipica di molte cicorie selvatiche. Le foglie, particolarmente tenere, si prestano magnificamente al consumo crudo in insalata, dove esprimono al meglio la loro delicatezza. Nella tradizione meridionale vengono anche lessate brevemente e condite con olio extravergine d’oliva e limone, oppure saltate in padella con aglio e peperoncino per accompagnare i legumi. La cucina pugliese le utilizza come ripieno per le focacce tradizionali o le mescola ad altre erbe per preparare minestre rustiche. Oltre al valore gastronomico, questa pianta vanta proprietà diuretiche, depurative e rinfrescanti.
Il tarassaco: l’amaro che depura e rallegra
Impossibile parlare di erbe autunnali senza dedicare ampio spazio al Taraxacum officinale, il tarassaco o dente di leone, chiamato affettuosamente anche soffione o piscialetto. Questa pianta è probabilmente la più riconoscibile tra le spontanee commestibili, grazie ai suoi caratteristici fiori gialli che in autunno tornano a punteggiare i prati dopo la pausa estiva, e ai soffioni piumosi che trasportano i semi al vento.
Le foglie dentate disposte a rosetta basale sono inconfondibili: possono essere più o meno frastagliate a seconda della varietà e dell’esposizione solare, ma mantengono sempre quel caratteristico margine frastagliato che ricorda, appunto, i denti di un leone. In autunno le foglie che ricrescono sono particolarmente tenere e meno fibrose rispetto a quelle primaverili, anche se mantengono quel sapore deciso e amarognolo che caratterizza la specie.
In cucina il tarassaco è un ingrediente versatile e generoso. Le foglie giovani crude arricchiscono insalate miste conferendo carattere e una nota amara che stimola l’appetito e la digestione. Nella tradizione contadina vengono lessate e ripassate in padella con olio, aglio e peperoncino, oppure utilizzate per preparare gustose frittate. I boccioli dei fiori, raccolti prima della schiusura, possono essere conservati sott’olio come i capperi, rappresentando una vera prelibatezza. Con i fiori aperti si prepara anche uno sciroppo dolce simile al miele, mentre le radici tostate danno vita a un surrogato del caffè dalle proprietà digestive eccezionali.
Dal punto di vista nutrizionale e salutistico, il tarassaco è considerato una delle piante più benefiche che la natura ci offra. È ricco di vitamine A e C, ferro, calcio e potassio, oltre a contenere inulina, una fibra che favorisce l’equilibrio della flora intestinale. Le sue proprietà depurative e drenanti sono riconosciute sia dalla medicina popolare che dalla fitoterapia moderna: stimola la funzionalità epatica e renale, favorisce la diuresi e aiuta a eliminare le tossine.
La cicoria selvatica: regina amara dei campi
Strettamente imparentata con il tarassaco, ma con una personalità distintiva, la cicoria selvatica (Cichorium intybus) popola i margini dei campi, i prati incolti e i bordi delle strade di campagna. In autunno le sue rosette basali ricominciano a svilupparsi vigorose, offrendo foglie dal sapore intensamente amaro, molto più marcato rispetto al cugino tarassaco.
La pianta si riconosce facilmente durante l’estate e l’autunno inoltrato per i suoi caratteristici fiori azzurro-celeste, che sbocciano nelle ore mattutine e appassiscono nel pomeriggio, regalando uno spettacolo effimero di rara bellezza. Le foglie, allungate e frastagliate, presentano una nervatura centrale pronunciata e una consistenza che diventa più coriacea con la maturazione. Per questo motivo, in autunno si raccolgono preferibilmente le foglie più giovani e tenere del centro della rosetta.
L’utilizzo gastronomico della cicoria selvatica affonda le radici nella più antica tradizione contadina italiana. Il suo sapore amaro potente la rende protagonista di preparazioni rustiche e saporite. Lessata e strizzata, viene ripassata in padella con aglio, olio extravergine e abbondante peperoncino, diventando un contorno dal carattere deciso che accompagna magnificamente le carni e i formaggi stagionati. Le proprietà benefiche della cicoria sono note fin dall’antichità: favorisce la digestione grazie ai suoi principi amari che stimolano la secrezione di bile, regola i livelli di zucchero nel sangue e stimola la diuresi.
Il topinambur: il tubero dimenticato che risorge
Sotto terra, mentre in superficie i suoi alti fusti raggiungono anche i tre metri e i fiori gialli simili a piccoli girasoli decorano i campi tra fine estate e autunno, si nasconde uno dei tesori più preziosi della stagione: il topinambur (Helianthus tuberosus). La raccolta dei tuberi avviene in autunno, generalmente a partire da ottobre, dopo la fioritura della pianta, fino a dicembre. Conosciuto anche come carciofo di Gerusalemme o rapa tedesca, questo tubero nodoso e irregolare nasconde sotto la sua buccia rosata un sapore delicato che ricorda effettivamente il carciofo, con note di nocciola.
Il topinambur è ricco di sali minerali tra cui ferro, fosforo e potassio, e contiene pochissime calorie. La sua caratteristica più interessante è l’elevato contenuto di inulina, un carboidrato che non viene metabolizzato dall’organismo umano ma che nutre beneficamente la flora intestinale, rendendolo particolarmente adatto all’alimentazione di chi soffre di diabete.
In cucina il topinambur è straordinariamente versatile: può essere consumato crudo, tagliato a lamelle sottilissime in insalata, dove esprime la sua croccantezza e il suo sapore delicato. Cotto al forno, diventa morbido e cremoso, perfetto come contorno. Si presta magnificamente a zuppe e vellutate, dove il suo sapore si fa ancora più rotondo e avvolgente. Fritto in chips sottili, diventa uno snack irresistibile. La tradizione contadina lo utilizzava anche in umidi e brasati, dove assorbiva i sapori delle carni con cui veniva cotto.
La bardana: radici preziose dal sapore aristocratico
Tra le piante autunnali più interessanti, la bardana (Arctium lappa) merita un posto d’onore. È una pianta dalle foglie grandi e carnose, facilmente riconoscibili, che cresce soprattutto nel sottobosco. Chi l’ha incontrata nei boschi ricorda sicuramente i suoi frutti spinosi che si attaccano ostinatamente ai vestiti e al pelo degli animali: sono proprio loro il sistema di dispersione dei semi di questa pianta dalle dimensioni imponenti.
Si utilizzano principalmente le radici, raccolte nell’autunno del primo anno di vegetazione o nella primavera del secondo anno, ma anche le foglie giovani e i giovani fusti ancora teneri. Il suo sapore ricorda un mix tra carciofo e tè verde, delicato ma intenso, con una nota terrosa caratteristica che la rende unica.
Le radici, lunghe e carnose, vanno pelate e messe in acqua acidulata per evitare che anneriscano. Si possono consumare cotte come le carote: bollite, al vapore, in umido o trifolate. In Giappone, dove la bardana (gobo) è molto apprezzata, viene utilizzata in innumerevoli preparazioni, dalle zuppe alle fritture tempura. Le foglie giovani, raccolte in primavera e autunno, possono essere lessate e condite come gli spinaci, mentre i gambi dei fiori, ancora teneri, si cucinano come gli asparagi dopo averli pelati.
La bardana viene apprezzata per le proprietà depurative del fegato ed è considerata un potente purificante del sangue. Le sue proprietà diuretiche, diaforetiche e ipoglicemizzanti la rendono una pianta preziosa anche dal punto di vista medicinal.
La piantaggine: l’umile guaritrice dei sentieri
Calpestata da milioni di piedi lungo i sentieri di campagna, la piantaggine (Plantago major e Plantago lanceolata) è una delle piante spontanee più diffuse e sottovalutate. Le sue foglie disposte a rosetta basale sono inconfondibili: quelle della piantaggine maggiore sono larghe e ovali con nervature parallele ben evidenti, mentre quelle della piantaggine lanceolata sono strette e allungate. In autunno le rosette si rinforzano e le foglie diventano particolarmente carnose.
Il sapore delle foglie di piantaggine è delicato, leggermente amarognolo e vagamente fungino, con una consistenza che ricorda vagamente quella degli spinaci ma più carnosa. Le foglie giovani possono essere consumate crude in insalata mescolate ad altre erbe, mentre quelle più mature si prestano meglio alla cottura: lessate, saltate in padella, aggiunte a minestre e zuppe. Nella tradizione contadina venivano utilizzate anche per avvolgere formaggi freschi durante la conservazione, conferendo un sapore particolare.
Ma è soprattutto per le sue proprietà medicinal che la piantaggine è stata apprezzata nei secoli: antinfiammatoria, cicatrizzante, espettorante, le foglie fresche schiacciate applicate su piccole ferite, punture d’insetto o scottature leniscono immediatamente il dolore e accelerano la guarigione. Le nonne sapevano bene che bastava masticare una foglia di piantaggine e applicarla su una puntura d’ape per trovare sollievo immediato.
La borragine: le stelle blu dell’orto selvatico
Con i suoi fiori a stella di un blu intenso e le foglie ricoperte da una peluria ispida, la borragine (Borago officinalis) è una presenza allegra e generosa nei prati autunnali. Questa pianta annuale, originaria del Mediterraneo, si auto-semina facilmente e colonizza orti e campi incolti, fiorendo dalla primavera fino all’autunno inoltrato.
Le foglie giovani, raccolte prima che la pianta fiorisca o nelle nuove rosette autunnali, hanno un sapore fresco che ricorda vagamente il cetriolo, con una nota leggermente iodica. La peluria che le ricopre scompare con la cottura, ed è per questo che la borragine si consuma principalmente cotta: le foglie vengono lessate e utilizzate come ripieno per ravioli, tortelli e pansotti (i celebri pansoti genovesi devono proprio alla borragine il loro sapore caratteristico), oppure saltate in padella e condite semplicemente con olio e limone. Si utilizzano anche per frittate, minestre e torte salate.
I fiori commestibili, dal sapore delicato e dolce, sono una decorazione spettacolare per insalate, bevande e piatti freddi. Vengono anche canditi per decorare dolci. Le proprietà della borragine sono note da secoli: è depurativa, diaforetica, diuretica e antinfiammatoria. L’olio estratto dai semi è particolarmente ricco di acido gamma-linolenico, un prezioso alleato contro il colesterolo.
Il cardo mariano: spine che proteggono il fegato
Imponente e spinosissimo, il cardo mariano (Silybum marianum) è inconfondibile grazie alle sue grandi foglie verde scuro solcate da venature bianche, come se qualcuno le avesse dipinte con pennellate di latte. La leggenda vuole che queste striature bianche siano gocce del latte della Madonna, da cui il nome. La raccolta delle foglie più tenere avviene in autunno e inverno.
Nonostante l’aspetto minaccioso, il cardo mariano offre diverse parti commestibili. Le foglie giovani, private delle spine marginali, possono essere consumate crude in insalata o cotte come gli spinaci. I gambi, pelati per eliminare le spine, si cucinano come i cardi coltivati: lessati e poi gratinati, in umido o fritti in pastella. Il ricettacolo del fiore, il cosiddetto “cuore” del cardo, è la parte più pregiata: si prepara come i fondi di carciofo, con un sapore simile ma più delicato.
Ma è soprattutto per le sue straordinarie proprietà epatoprotettive che il cardo mariano è celebre da millenni. I suoi semi contengono silimarina, un complesso di flavonoidi che protegge le cellule del fegato dalle tossine, stimola la rigenerazione degli epatociti ed è utilizzato nel trattamento di numerose patologie epatiche. La medicina popolare lo utilizzava dopo eccessi alimentari o per contrastare gli effetti di sostanze nocive.
L’acetosella gialla: piccola esplosione di acidità
Nei prati ombreggiati, sotto le siepi e ai margini dei boschi, in autunno germogliano i bulbi dell’acetosella gialla (Oxalis pes-caprae), fiorendo con brillantissimi fiori giallo fluo a cinque petali dai mesi invernali, novembre e dicembre, fino in primavera inoltrata. Le sue foglie trifogliate carnose, simili a piccoli cuori, contengono acido ossalico che conferisce un sapore intensamente acido e rinfrescante, da cui il nome.
L’acetosella va consumata con moderazione proprio per il contenuto di acido ossalico, ma in piccole quantità è un’aggiunta deliziosa in cucina. Le foglie fresche crude possono arricchire insalate miste con la loro nota acidula vivace, sostituire il limone per condire pesce e verdure, o essere aggiunte a frullati e smoothie per un tocco rinfrescante. Si utilizzano anche per preparare salse verdi da accompagnamento.
Nella tradizione popolare, l’acetosella era considerata rinfrescante, dissetante e febbrifuga. Le foglie masticate fresche toglievano la sete durante le lunghe giornate nei campi. Tuttavia, per l’alto contenuto di ossalati, se ne sconsiglia il consumo frequente a chi soffre di calcoli renali.
L’angelica selvatica: l’aromatica monumentale
Meno comune delle altre ma altrettanto preziosa, l’angelica selvatica (Angelica sylvestris) è una pianta imponente che può superare i due metri d’altezza, con grandi ombrelle di fiori bianchi o rosati che compaiono in estate e autunno. Si riconosce facilmente per il fusto robusto e cavo, spesso rossastro alla base, e per le foglie composte finemente divise che emanano un aroma intenso e aromatico quando vengono sfregate.
Tutte le parti della pianta sono aromatiche ma vanno utilizzate con cautela e competenza botanica, poiché appartiene alla famiglia delle Apiaceae che comprende anche specie tossiche. I giovani fusti e i piccioli delle foglie, raccolti in primavera ma anche nelle ricrescite autunnali, possono essere pelati e consumati crudi come verdura croccante dal sapore aromatico che ricorda il sedano ma più complesso. Cotti, si utilizzano in zuppe, risotti e per aromatizzare piatti di pesce.
L’angelica ha una lunga tradizione d’uso sia culinario che medicinale: stimola la digestione, favorisce l’appetito, è carminativa ed espettorante. I fusti canditi sono stati per secoli utilizzati in pasticceria per decorare dolci e preparare liquori digestivi. Nella medicina popolare era considerata una pianta dalle virtù quasi magiche contro numerosi malanni.
La raccolta consapevole: regole e rispetto
Prima di avventurarsi nella raccolta delle erbe spontanee, è fondamentale acquisire una conoscenza botanica sicura che permetta di riconoscere senza dubbi le specie commestibili, distinguendole da quelle potenzialmente tossiche. Il rischio di confusione può essere letale: alcune piante velenose assomigliano superficialmente a specie eduli, e solo un’attenta osservazione di foglie, fusti e fiori permette l’identificazione certa.
La raccolta deve avvenire lontano da fonti di inquinamento: evitate i bordi delle strade trafficate, i campi trattati con pesticidi, le aree industriali e i terreni di cui non conoscete la storia. Privilegiate prati incolti, margini di boschi, zone rurali non contaminate e, dove necessario, richiedete le autorizzazioni agli enti competenti, soprattutto in aree protette.
Il rispetto per la pianta e l’ecosistema deve guidare ogni raccolta: non estirpate mai l’intera pianta se non necessario, prelevate solo le foglie esterne lasciando che il centro possa rigenerarsi, non raccogliete più del necessario per il vostro consumo immediato. La raccolta delle erbe spontanee non è predazione, ma un dialogo antico con la natura che richiede gratitudine e responsabilità.
Infine, lavatele sempre accuratamente prima del consumo, immergendole in acqua fredda anche più volte per eliminare terra, insetti e residui. Questo semplice gesto completa un percorso che dalla terra porta alla tavola il meglio che ogni stagione sa offrire.
Un patrimonio da riscoprire e tramandare
La conoscenza delle erbe spontanee commestibili rappresenta un patrimonio culturale immenso che rischia di scomparire con le generazioni che l’hanno custodito. In un’epoca che ci sta riavvicinando alla consapevolezza alimentare e alla sostenibilità ambientale, riscoprire queste pratiche antiche significa riconnettersi con il territorio, ridurre l’impatto ecologico delle nostre scelte alimentari e arricchire la dieta con alimenti autentici e nutrienti.
Ogni erba spontanea racconta una storia fatta di stagioni, di mani che hanno saputo riconoscerla e trasformarla, di ricette tramandate oralmente, di sapori che appartengono alla nostra identità più profonda. Quando portiamo in tavola un’insalata di caccialepre, una cicoria ripassata, una frittata al tarassaco, tuberi di topinambur al forno o ravioli alla borragine, non stiamo semplicemente cucinando: stiamo celebrando un legame millenario tra l’uomo e la natura, stiamo mantenendo viva una tradizione che merita di essere conosciuta, praticata e trasmessa alle generazioni future.
L’autunno, con la sua luce dorata e i suoi ritmi rallentati, ci invita a rallentare anche noi, a chinare lo sguardo verso il suolo e scoprire che sotto i nostri piedi cresce un universo di sapori, profumi e possibilità che aspetta solo di essere colto. Dalle radici nodose del topinambur alle stelle blu della borragine, dalle spine protettive del cardo mariano alle umili foglie della piantaggine, ogni pianta è un invito a riscoprire la ricchezza che la natura continua a offrirci generosamente.

Direttore editoriale di nonewsmagazine.com | Il magazine dell’ozio e della serendipità.
Direttore responsabile di No News | La free press dell’ozio milanese.
Viaggiatore iperattivo, tenta sempre di confondersi con la popolazione indigena.
Amante della lettura, legge un po’ di tutto. Dai cupi autori russi, passando per i libertini francesi, attraverso i pessimisti tedeschi, per arrivare agli amori sofferti tra le campagne inglesi. Tra gli scrittori moderni tra i preferiti spiccano Roddy Doyle, Nick Hornby e Francesco Muzzopappa.
Melomane vecchio stampo, c’è chi lo chiama “il fondamentalista del Loggione”. Ama il dramma verdiano così come le atmosfere oniriche di Wagner. L’opera preferita, tuttavia, rimane la Tosca.



































