Prendi un pubblico e mettilo difronte al buco della serratura di un appartamento condiviso da una madre e una figlia.
Attraverso il buco della serratura, ogni spettatore, ne scruta gli arredi, i bei quadri appesi alle pareti, i libri accatastati in ogni dove e i sacchetti della spesa lasciati vicino alla porta d’ingresso.
Vive con loro e attraverso i loro discorsi, le discussioni e i confronti, il dramma del passaggio, dalla lucidità alla demenza, in cui può soccombere la mente umana.
Si arriva allo scontro sempre più intenso dove le accuse rimbalzano come la pallina in una partita di ping pong. Vengono ripresi vecchi argomenti che non hanno avuto mai risposta: chi era in realtà il padre di Stephanie e di sua sorella? Stephanie non ne ricorda nemmeno il viso; era solo una bambina di 4 anni quando lui abbandonò la madre incinta (ma l’aveva veramente abbandonata o era stata lei a mandarlo via?).
La mente di Muriel, passa dalla realtà all’immaginazione, è convinta che tutti la spiino, i vicini di casa, le commesse del supermercato, la guardia giurata, delle telecamere invisibili all’occhio umano piazzate sui semafori e nelle vie della città e che la casa sia piena di microspie.
La sua mentre crea degli ammiratori segreti che le inviano fiori e lei ringrazia spedendo lettere; arriva a credere che la figlia stia complottando contro di lei.
La mente di Muriel non tornerà più indietro dalla follia in cui si ritrova a vivere; follia a cui aveva cercato, con l’aiuto delle medicine e con l’amore di Stephanie di preservarsi.
Alla fine Stephanie soccomberà e Muriel danzerà il tango col suo pretendente spagnolo.
Lo spettacolo finisce; rimane un po’ di amaro in bocca e tante domande alle quali non si riuscirà a dare una risposta.
Una su tutte: fino a che punto è stato giusto, per Stephanie, rinunciare ai suoi sogni, alle sue ambizioni, agli ideali a cui ha sempre creduto pur di aiutare sua madre?

