“Qualche volta dovremmo anche poter scegliere il modo in cui vivere”, disse. “Io non ho scelto niente di quello che sono.”
Ci sono voci fatte per essere abbracciate, e avrei voluto dirglielo. Sentivo la sua mano vicino alla mia, e allora, continuando a guardare in alto, mossi la mia impercettibilmente, quanto bastò a sfiorarla e poi ritirarla, come se fosse accaduto per caso.
“Forse nessuno sceglie davvero di essere quello che è. Forse le nostre vite sono solo un maldestro tentativo di adattamento.”
…… “Noi siamo più di quello che ricordiamo.”
Spesso le cose importanti che ci sono accadute non sono quei ricordi ma il filo sottile che li lega, ciò che avevamo solo intravisto, la carta velina tra una pagina e l’altra che non serve solo a proteggere le foto, dividendole, ma a mascherarle, a farne ogni volta scoperta.
……
Negli oggetti che osservavo era sempre la macchia che mi attraeva, l’incrinatura, il segno del cedimento, la crepa, la frattura. E così anche negli uomini: osservarli fino a scorgere il momento dell’umanità, il segno di debolezza, il disvelamento della vulnerabilità: una gamba che si muoveva ossessivamente, uno sguardo perso nel vuoto, le braccia strette al petto, un anomalo inarcamento delle sopracciglia, un attimo in più che la mano indugiava nei capelli, un passo impercettibilmente sospeso, un sospiro così vaporoso da sembrare pensiero.
Perché è vero che la morte uniforma il mondo, azzera i sogni, livella le ambizioni, agguaglia gli uomini in uno stesso destino, ma molto prima di essa è il dolore che li unisce, tutti, il dolore con i suoi innumerabili palesamenti, quello che scoppia in pianto, in gesti d’ira di vetri frantumati, di parole urlate, o che si accumula negli abissi del corpo, che segretamente si diffonde nelle fibre, nelle piastrine, e che prima o poi arriva in superficie, in un neo che improvvisamente affiora sulla spalla, in un’unghia più lunga delle altre, in un impercettibile gonfiore al petto, che ci sono parti del corpo modellate dalle speranze e dalle gioie, dalle delusioni e dalle felicità, dal dolore.
Ci sono luoghi che racchiudono nel loro nome il potere di raccontare le storie. Storie di persone realmente vissute, storie quasi magiche frutto della fantasia dell’uomo perché l’uomo senza fantasia non può vivere; storie un po’ reali e un po’ inventate.
Timpamara, luogo in cui è ambientato il romanzo si presta perfettamente a tale scopo forsanche perché è il paese in cui è stato costruito il maceratoio dei libri. E si sa i libri hanno sempre tante storie da raccontare.
Anche il protagonista del romanzo: Astolfo ha il nome che i genitori hanno trovato su un libro, come tanti altri abitanti di Timpamara a cui è stato dato il nome di qualche personaggio che campeggiava su un foglio di carta che il vento ha trasportato dal maceratoio in paese.
L’amore per i libri glielo ha trasmesso la madre; ecco perché Astolfo, diventato grande, si prenderà cura dei libri della biblioteca del paese divenuta riferimento anche per i paese limitrofi.
Ma il destino si sa ha sempre in serbo per noi delle sorprese.
Oltre ad essere l’unico bibliotecario diventerà anche custode del cimitero del paese. La mattina si occuperà della biblioteca il pomeriggio del cimitero.
Il nuovo incarico sarà per lui fonte di ansia fino a che un giorno non si imbatte in una tomba senza nome e senza date ma sulla cui lapide campeggia solo la fotografia di una bellissima donna.
La fulgida fantasia di Astolfo inizierà a tessere delle ipotesi su chi possa essere quella donna, senza riuscire a venirne a capo fino a quando davanti alla tomba della sconosciuta non vedrà un’altra donna praticamente identica alla foto della defunta.
Domenico Dara, riesce a tramutare le parole dei “fatti” in scrittura.
Un romanzo che racchiude in sé l’amore per i libri e tutto ciò che le parole scritte nei romanzi ne scaturiscono compreso i nomi degli abitanti di Timpamara; l’amore per i propri genitori, per le persone, per i dolori altrui.
Un libro di parole e ricordi e storie.

