“Flag day” è un film di Sean Penn interpretato da lui stesso con i figli Dylan Frances e Hopper Jack: è basato sul libro autobiografico della giornalista Jennifer Vogel, “Flim-Flam Man: The True Story of My Father’s Counterfeit Life“, che ebbe un rapporto altalenante con il padre falsario John Vogel. Nonostante la troupe avesse cominciato le riprese nel 2019, il film è arrivato nelle sale statunitense solo nell’agosto del 2021, mentre in Italia sarà distribuito a partire dal 31 marzo, per conto di Lucky Red e con il titolo “Una vita in fuga”.
Nel cast tecnico dell’ultimo film di Sean Penn figurano nomi di alto calibro, per la maggioranza persone che avevano già collaborato con l’attore nei suoi primi film da regista. La sceneggiatura è stata composta dal drammaturgo vincitore di un Tony Award Jez Butterworth con l’aiuto del fratello John-Henry; la colonna sonora porta la firma del compositore Joseph Vitarelli che si è avvalso di musicisti quali Eddie Vedder e Glen Hansard. Per quanto riguarda invece il cast artistico, oltre ai giovani debuttanti Dylan e Hopper – che interpretano i figli di Penn anche nella finzione – vi sono Josh Brolin, Norbert Leo Butz, Katheryn Winnick e Eddie Marsan.
Un padre che scappa e una figlia che resta
Jennifer e suo fratello Nick sono i figli di Patty e John Vogel, una famiglia alquanto inusuale, se non altro perché trascorre più tempo in strada, viaggiando, che al riparo di un tetto fisso come qualsiasi altra famiglia perbene. John Vogel infatti è un padre incostante, incapace di avere un lavoro “conforme” a quello che vorrebbe la società, e si barcamena in loschi affari di cui tiene all’oscuro tutti e tre. Alla figlia prediletta racconta sempre storie improbabili, che però hanno un discreto fascino sulla piccola Jennifer. Presto John inizia a rendersi conto che non può reprimere il suo desiderio di fuga e decide di abbandonare la moglie e i figli senza progettare mai un ritorno. Tuttavia, se il suo piano avventuriero riesce a tenerlo distante geograficamente, John non può allontanarsi dal cuore della sua amata figlia, che gli sarà sempre devota. E, anche quando sarà troppo tardi, Jennifer continuerà a considerare suo padre come quell’anti-eroe che le ha fatto apprezzare il desiderio di non restare mai ferma e di andare avanti costi quel che costi.
Una celebrazione del passato
Al centro della lavorazione c’è il passare delle stagioni e il cambiamento delle condizioni atmosferiche, cosa che ha dilatato i tempi di ripresa fino a otto mesi. Nonostante le vicende del film abbiano luogo principalmente nel Minnesota e poi in California, quindi negli Stati Uniti, Penn e i suoi colleghi hanno trovato nella provincia canadese di Manitoba il posto perfetto per restituire le atmosfere di un passato rimasto intaccato. Proprio nei dintorni di Manitoba la troupe ha reperito un caseggiato lacustre che è realmente rintracciabile sul Falcon Lake: lo scopo era far sì che tutte le riprese avvenissero in un raggio di 160 chilometri, per questo agli scenografi è stato richiesta una ricerca mirata di immagini che potessero ispirare gli edifici dell’epoca, senza il bisogno di spostarsi ulteriormente. Ma l’aria di autenticità non riguarda solo i sopralluoghi, perché è riscontrabile in primis nell’uso dell’immagine. Penn e il direttore della fotografia Danny Moder hanno optato per l’uso della pellicola 16 mm, non per niente il regista ha dichiarato di amare la grana di questo tipo di pellicola. “A prescindere da come la tagli – dice Penn – all’immagine digitale manca quella bellezza della vita che evoca la sensazione del tempo che passa. Quindi piuttosto che girare in digitale e poi imporre un’immagine filmica stratificata, siamo andati dritti alla fonte”.
Spazio e tempo trovano quindi una perfetta sintesi nella scelta dei costumi e degli oggetti che, effettivamente, hanno accompagnato le persone dagli anni Settanta fino agli anni Novanta, come le lettere imbucate nelle caselle postali, la sottocultura punk, la disco music, i giradischi, i telefoni con la cornetta, eccetera.
Pregi e difetti di un film che parla a tutti
Quando è stato presentato a Cannes, “Flag day” ha ricevuto pareri contrastanti, molti dei quali mettevano in luce più i difetti che i pregi di questa pellicola (termine usato non a torto, come abbiamo visto). Certamente, per quanto commuovente e profondo, al film di Penn mancano degli elementi per condurlo alla definizione di “capolavoro”. Vediamo quali.
Innanzitutto, come è stato contestato al regista, non è passato inosservato il ricorso agli effetti speciali “SSVFX” con i quali sono stati ringiovaniti i tratti dell’attore nelle parti in cui viene mostra l’infanzia di Jennifer. Infatti, se guardiamo alla scarsa importanza data al rapporto di John con suo figlio Nick – altro difetto della narrazione non trascurabile, per quanto minore – il regista avrebbe potuto scegliere direttamente il suo stesso figlio Hopper nei panni del John giovane: la somiglianza tra i due è indiscussa. Ci soffermiamo su questo dettaglio apparentemente insignificante per sottolineare il paradosso con quanto Penn ha dichiarato sull’uso della pellicola: se tutti erano concordi con la capacità dei 16mm di evocare meglio quel passato così minuziosamente ricreato, perché ricorrere invece a degli effetti speciali moderni e, dunque, contrari a questo scopo?
Non solo: il film sorvola sulla carriera giornalistica di Jennifer e sembra banalizzare la perseveranza della giovane nel cliché del sogno americano. Di fatto, dopo l’allontanamento dalla famiglia, Jennifer, che trascorre tempi burrascosi, viene ammessa nella prestigiosa Università del Minnesota facendo breccia nel suo direttore con una semplice frase: “Voglio contare qualcosa”. Troppo poco realistico per un paese in cui le persone di ceto medio basso faticano sempre più ad accedere a un’istruzione di qualità, che richiede, come si sa, prima di tutto un investimento di ingenti capitali e, poi, una forte motivazione.
Ciononostante, vogliamo ribadire il nostro appoggio a un film che ci ha emozionati e tenuti con il fiato sospeso dall’inizio alla fine, perché ha avuto la capacità di ricordarci che la vita non è perfetta ma è proprio per questo che va amata e difesa contro tutte le rinunce possibili. Come Jennifer, anche noi abbiamo il dovere di lottare nei momenti più burrascosi per ricordare a noi stessi che i sogni non sono fermi in un blocco di ghiaccio ma vanno resi liberi di vagare, proprio come lei e suo padre facevano nelle praterie alla ricerca della felicità.

Vorrebbe avere una conversazione con Audrey Hepburn, ma si accontenterà di sognarla guardando i suoi film.
Ama leggere: legge qualsiasi cosa scritta su qualsiasi superficie materiale e, se la trova particolarmente attraente, la ricopia subito senza pensarci troppo.
E fu così che iniziò millemila quaderni delle citazioni sparpagliati tutti sulla sua scrivania in disordine.