Mi sveglio all’alba a Nouakchott, la capitale mauritana che si stende pigramente tra dune mobili e cemento, dove il confine tra città e deserto si confonde in un abbraccio ambiguo. L’aria sa già di sabbia e sale. Siamo carichi e pronti: le nostre 4×4 stracolme di tende, taniche d’acqua, cucina da campo e provviste che dovranno accompagnarci per i prossimi 1500 chilometri attraverso uno dei paesaggi più estremi e autentici dell’intero Sahara. Non esistono strade asfaltate dove andiamo, solo piste polverose che si snodano tra rocce vulcaniche e mari di sabbia dove il GPS diventa un compagno incerto e la bussola del nostro autista beduino vale più di qualsiasi tecnologia.
Puntiamo verso nord, lasciandoci alle spalle la costa atlantica. Il paesaggio cambia continuamente: da distese piatte e infinite dove l’orizzonte trema per il calore, a improvvisi affioramenti rocciosi che spuntano come denti dalla sabbia. I piccoli villaggi che attraversiamo sono macchie di vita ostinata, dove bambini scalzi corrono incontro ai nostri veicoli sollevando nuvole dorate e gli anziani, avvolti nei loro boubou tradizionali, ci osservano con quella calma solenne di chi ha imparato a convivere con il silenzio del deserto.
L’oasi di Terjit: un miracolo tra roccia nera e sabbia arancione
Dopo ore di viaggio attraverso il nulla assoluto, Terjit appare come un miraggio che diventa realtà. L’oasi si nasconde tra pareti di roccia nera basaltica, un contrasto violento e magnifico con le lingue di sabbia arancione che scivolano tra le fessure delle gole. Scendiamo dai veicoli e il profumo delle palme da dattero ci investe: è il primo respiro verde dopo chilometri di aridità minerale.
L’acqua scorre ancora qui, tiepida e cristallina, raccolta in piccole pozze naturali dove le donne del villaggio lavano i panni e i bambini si tuffano ridendo. Mi tolgo gli scarponi e immergo i piedi nell’acqua: è un gesto banale che qui diventa un rito sacro. Intorno a noi, i giardini coltivati con cura quasi maniacale producono ortaggi e frutta, strappati metro per metro all’ostilità del deserto. Gli abitanti di Terjit conoscono il valore di ogni goccia d’acqua, di ogni palma, di ogni zolla di terra fertile. Mentre il sole cala tingendo le rocce di viola e oro, realizzo che questo luogo è molto più di un’oasi: è una lezione di sopravvivenza e di armonia con un ambiente che non perdona errori.
Le montagne dell’Adrar: dove il tempo si è fermato
Le montagne dell’Adrar si ergono improvvisamente dal deserto come cattedrali di pietra, aspre e solenni. La pista che le attraversa è un serpente tortuoso che sale e scende tra dirupi vertiginosi e gole strette dove il nostro convoglio deve procedere con estrema cautela. Dal passo dell’Amojjar il panorama che si apre è così vasto e primordiale da togliere il fiato: tavolati nerastri si alternano a vallate dove la sabbia si accumula in onde gigantesche, e in lontananza altre montagne sorgono come miraggi azzurri.
È qui che incontriamo il nostro primo beduino, apparso dal nulla come un’apparizione. Il suo cammello mastica lentamente mentre l’uomo, avvolto in un tagelmust blu che lascia scoperti solo gli occhi, ci osserva senza dire nulla. Non ha fretta: il tempo qui ha un altro significato, scandito solo dal sorgere e tramontare del sole, dal movimento delle stelle, dai ritmi millenari della transumanza. Ci scambiamo qualche parola in un francese stentato e lui ci indica la direzione per Chinguetti con un gesto ampio del braccio, prima di rimontare sul suo cammello e scomparire tra le dune come era apparso.
Chinguetti: la settima città santa dell’Islam
Quando Chinguetti emerge all’orizzonte, circondata da cordoni di dune che gli antichi credevano invalicabili, capisco perché questo luogo è stato definito la settima città santa dell’Islam. Le sue case di pietra e fango si arrampicano sulle colline come fossero cresciute dalla terra stessa, e il minareto quadrato della moschea, costruito nel XIII secolo, si staglia contro un cielo di un azzurro così intenso da sembrare dipinto.
Cammino per le strade strette della città vecchia, dove il silenzio è rotto solo dal fruscio del vento e dal richiamo lontano di una capra. Chinguetti ospita dodici antiche biblioteche, custodi di manoscritti preziosi che raccontano secoli di cultura islamica, di astronomia, di poesia e di commerci carovanieri. In una di queste biblioteche, illuminate dalla luce naturale che filtra attraverso piccole aperture, un anziano custode mi mostra con orgoglio volumi rilegati in pelle di cammello, le cui pagine ingiallite portano ancora l’inchiostro nero e rosso di calligrafi vissuti otto secoli fa. Ogni pagina è un tesoro, ogni libro un ponte tra passato e presente.
La città conserva il fascino malinconico dei luoghi dimenticati dal tempo e dagli uomini. Le dune avanzano inesorabili, invadendo cortili e strade, come se il deserto volesse riprendersi ciò che gli appartiene. Gli abitanti rimasti – poche centinaia – resistono con quella dignità silenziosa che caratterizza i popoli del Sahara, consapevoli di essere gli ultimi guardiani di una gloria che fu.
Ouadane: nella culla degli Almoravidi
Il viaggio da Chinguetti a Ouadane è considerato uno dei più spettacolari di tutta la Mauritania, e non fatico a capirne il motivo. La pista attraversa un mare di sabbia dove le dune cambiano forma ad ogni passaggio del vento, alternate a plateau rocciosi dove la geologia racconta storie di milioni di anni. Il nostro autista guida con quella sicurezza che nasce dall’esperienza, leggendo il deserto come un libro aperto.
Ouadane appare improvvisamente, abbarbicata su uno sperone roccioso che domina una doppia vallata – da qui il nome che significa proprio “due valli”. La città era un tempo parte fondamentale della rotta commerciale trans-sahariana, punto di partenza per i pellegrinaggi e centro religioso della regione. Camminiamo tra le rovine della città vecchia, costruita sui pendii delle colline: edifici a più piani con muri decorati da nicchie e lesene testimoniano un’architettura raffinata e una società prospera che commerciava oro, sale e datteri.
La parte alta della città è un dedalo di rovine dove il vento soffia tra i muri crollati, producendo un suono che sembra un lamento. Qui vivevano i mercanti più ricchi, qui si decidevano gli itinerari delle carovane che attraversavano il Sahara per mesi. Ora restano solo pietre e memorie, ma l’atmosfera è così carica di storia che quasi posso vedere le carovane di cammelli carichi di merci preziose, sentire le voci dei mercanti che contrattano, percepire il fermento di una città che fu potente.
Il Guelb Er Richat: l’occhio che guarda le stelle
Proseguiamo verso est, dove ci attende una delle curiosità geologiche più straordinarie del pianeta: il cratere del Guelb Er Richat, noto anche come “l’occhio del Richat”, che si estende per 50 chilometri di diametro ed è visibile persino dallo spazio. Questa formazione circolare perfetta, con i suoi anelli concentrici di rocce di colori diversi, ha alimentato per anni teorie fantasiose: un cratere meteoritico, i resti di Atlantide, un portale dimensionale.
La verità geologica è meno romantica ma altrettanto affascinante: si tratta di un’antica cupola vulcanica collassata ed erosa nel corso di milioni di anni, che ha esposto strati di rocce di ere diverse. Entriamo nel cratere e attraversiamo i suoi anelli, osservando come il colore della pietra cambi gradualmente dal bianco al nero, dal rosso all’ocra. In alcuni punti troviamo tumuli funerari preistorici, testimoni silenziosi di popoli che già migliaia di anni fa consideravano questo luogo speciale.
Atar e il monolite di Ben Amira
Torniamo sulle piste sterrate che attraversano le montagne dell’Adrar fino ad Atar, l’antica capitale degli Almoravidi che dall’XI al XII secolo dominarono un impero che si estendeva dal Marocco alla Spagna fino alle rive del Niger. La città, cinta da mura ancora visibili, conserva tracce del suo antico splendore: moschee decorate, case tradizionali, un mercato vivace dove beduini e agricoltori si incontrano per scambiare merci.
Ma è a nord di Atar che ci attende uno degli spettacoli naturali più impressionanti: il monolite di Ben Amira. Ben Amira è il più grande monolito dell’Africa e frequentemente considerato il secondo più grande al mondo, superato solo dall’Uluru australiano. Si innalza per 633 metri sopra il pavimento del deserto, ed emerge dal nulla assoluto come un gigante di pietra abbandonato dagli dei.
Quando finalmente lo vediamo, dopo ore di guida su terreni sempre più accidentati, l’impatto è straniante. Non c’è nulla che prepari a questa visione: solo sabbia per chilometri e chilometri, e poi questa massa rocciosa colossale che si erge solitaria contro il cielo. Ci avviciniamo fino alla sua base e devo rovesciare la testa all’indietro per vederne la sommità. La roccia, levigata dal vento di millenni, riflette la luce del sole con tonalità che vanno dal grigio al rosa, e nelle ore del tramonto sembra incendiarsi. Non ci sono recinti, biglietti, turisti: solo noi e questo monumento naturale che esiste immutato da milioni di anni.
Il Parco Nazionale del Banc d’Arguin: dove il deserto bacia l’oceano
La tappa successiva è lunga e impegnativa: attraversiamo distese di sabbia e sterrati che sembrano non finire mai, fino a quando, improvvisamente, nell’aria avvertiamo qualcosa di diverso. È il sale dell’Atlantico, è l’umidità che mitiga il calore secco del deserto. Stiamo arrivando al Parco Nazionale del Banc d’Arguin, dove le dune del Sahara letteralmente precipitano nell’oceano creando un paesaggio di bellezza quasi aliena.
Il Banc d’Arguin è una delle zone più importanti al mondo per la nidificazione degli uccelli e per i limicoli migratori paleartici. Mentre cammino sulla spiaggia, con il deserto alle mie spalle e l’oceano davanti, osservo stormi infiniti di fenicotteri, pellicani, cormorani e decine di altre specie che hanno scelto questo luogo remoto come casa o punto di sosta durante le loro migrazioni transcontinentali. L’acqua bassa e ricca di nutrienti crea un ecosistema unico, patrimonio dell’UNESCO dal 1989.
Ma gli abitanti più affascinanti di questi luoghi sono gli Imraguen, pescatori tradizionali che rappresentano gli ultimi custodi di un modo di vivere ancestrale. Le generazioni passate di Imraguen usavano fischiare per attirare i delfini vicino alla riva e catturare i cefali che seguivano sempre i delfini. Battendo l’acqua con bastoni, attirano i delfini che creano una barriera impedendo ai pesci di fuggire verso il mare aperto. È una collaborazione antica tra uomo e animale, un esempio straordinario di come l’intelligenza e il rispetto possano creare armonie insospettabili.
Gli Imraguen sono solo poche migliaia ormai, e sono gli unici autorizzati a pescare in quest’area protetta, a condizione che usino esclusivamente metodi tradizionali. Le loro barche colorate, costruite in legno e dipinte con tinte vivaci, danzano tra le onde con una grazia che contrasta con la violenza dell’oceano. Le donne aprono, puliscono e seccano il pesce catturato, e dalle uova di cefalo ottengono la preziosa bottarga, considerata l’oro del Banc d’Arguin.
Lungo la costa fino a Nouakchott: il ritorno
Gli ultimi giorni del viaggio li trascorriamo costeggiando la sabbiosa costa mauritana, dove dune alte decine di metri corrono parallele all’oceano per chilometri. È un paesaggio ipnotico, dove il giallo-oro della sabbia incontra il blu profondo dell’Atlantico, e milioni di conchiglie ricoprono le dune più vicine al mare, continuamente inghiottite e restituite dalle onde con un rumore ritmico che sembra musica primordiale.
A Tiouilit ci fermiamo per l’ultima notte sotto le stelle. Il cielo qui, lontano da qualsiasi inquinamento luminoso, è di una nitidezza che non credevo possibile: la Via Lattea attraversa l’oscurità come un fiume di luce, e le stelle sono così numerose da sembrare polvere brillante. Seduto sulla sabbia ancora tiepida, con il suono delle onde in sottofondo, ripenso a tutto ciò che ho visto: città dimenticate che furono potenti, deserti che nascondono meraviglie geologiche, popoli che resistono in ambienti estremi conservando tradizioni millenarie, natura selvaggia che ancora vive libera da logiche commerciali.
La Mauritania è davvero, come qualcuno l’ha definita, l’ultimo paese sahariano veramente incontaminato. Non ci sono folle di turisti, resort all-inclusive, tour operator che trasformano l’avventura in consumo. C’è solo la terra nella sua nuda essenza, le persone nella loro autenticità non ancora corrosa dalla globalizzazione, il tempo che scorre secondo ritmi antichi. È un privilegio averla attraversata, una responsabilità raccontarla senza tradirne l’anima.
Rientrati a Nouakchott, mentre aspetto il volo per l’Italia, guardo le mie scarpe ancora impregnate di sabbia del Sahara e so che una parte di me rimarrà per sempre in quelle distese infinite, in quelle città di pietra che resistono all’oblio, in quegli sguardi fieri dei nomadi che continuano a cavalcare i loro cammelli attraverso il deserto come fanno da mille anni.

Appassionato di scoperta e avventura, racconto i sentieri meno battuti del mondo, dove la natura e le tradizioni si svelano in modo autentico e sorprendente. Amo esplorare percorsi nascosti, lontani dalle rotte turistiche, per cogliere l’essenza vera di ogni luogo e condividere storie di paesaggi incontaminati, culture sconosciute e incontri autentici. Con uno stile narrativo coinvolgente, porto i lettori in un viaggio intimo e ricco di emozioni, dove il silenzio dei sentieri permette di riscoprire sé stessi e il mondo che ci circonda. Per me, ogni cammino è un’esperienza di scoperta, un invito a svelare le meraviglie sconosciute e a vivere avventure uniche, lontano dal caos e vicino alla natura.





































